Sgomberiamo subito il campo da equivoci: se la sentenza descrive correttamente la realtà (e data la sua precisione ciò ci pare assai probabile), alcuni comportamenti della ricorrente appaiono difficilmente giustificabili, sia sotto il profilo degli adempimenti procedurali (si afferma che lo statuto prevede che il consiglio direttivo deliberi sulle domanda di ammissione dei soci e ciò non è avvenuto; e che lo statuto prevede che il consiglio deliberi le quote annuali e ciò non è stato fatto) sia sotto il profilo sostanziale (gli addetti alla palestra interrogati – receptionist e istruttori – hanno dichiarato di non percepire alcun compenso, non pare essere stato istituito il libro cassa, ed è stato esibito un numero irrisorio di ricevute rendendo di fatto impossibile verificare la correttezza del rendiconto), sia infine, almeno in parte, sotto il profilo della corretta verbalizzazione del funzionamento di assemblea e consiglio direttivo.
Se ciò è vero, indizi di non corretto svolgimento dell’attività paiono effettivamente esservene, e sarebbe stato compito della ricorrente difendersi puntualmente; se è vero che si è limitata a “svolgere deduzioni del tutto generiche e inidonee ad inficiare, sul piano probatorio, le risultanze sopra menzionate”, ad affermare che “ ’fare sport’ non significa necessariamente partecipare a manifestazioni sportive”, e sulla questione istruttori “si è limitata a contestazioni estremamente generiche con le quali afferma che quanto accertato dai verbalizzanti in ordine alla percezione dei compensi sarebbe ‘totalmente basato su ipotesi e presunzioni’, senza null’altro aggiungere”, il rigetto dei ricorsi appare probabilmente fondato: abbiamo sempre sostenuto che i pochi adempimenti necessari vanno effettuati, e che deve prevalere la sostanza sulla forma; non possiamo disconoscere tali principi quando su di essi si basa la pretesa dell’Erario.
Ciò che non ci piace è però che alle violazioni procedurali, alle questione della gratuità delle prestazioni, alla mancata istituzione del libro cassa e alla questione delle ricevute siano dedicate poche righe, e la gran parte della sentenza si preoccupi di esprimere parere favorevole a rilievi che ci convincono molto meno; cerchiamo di ripercorrerli in modo il più sintetico possibile.
1) In primo luogo viene contestata “la mancata indicazione … della denominazione ‘associazione sportiva dilettantistica’ nelle comunicazioni al pubblico”; ciò perché “secondo la normativa in materia lo statuto deve indicare la ragione o denominazione sociale ’dilettantistica’ che deve essere utilizzata in tutti i segni distintivi o comunicazioni rivolte al pubblico”.
La denominazione dell’associazione è “Circolo sportivo dilettantistico …” e l’art. 90 della Legge 289/02 stabilisce che la a.s.d. “devono indicare nella denominazione sociale la finalità sportiva e la ragione o la denominazione sociale dilettantistica”, nient’altro. Non ci paiono necessari commenti.
2) “Dalla documentazione acquisita e da interrogazioni per via telematica non risulta poi che l’associazione nell’anno 2007 fosse iscritta al CONI”.
In primo luogo gradiremmo sapere quali siano state tali interrogazioni telematiche, atteso che il Registro CONI da sempre raccomanda di stampare anno per anno i certificati di iscrizione, dato che viene dichiarato che non è possibile verificare/certificare l’iscrizione per gli anni precedenti: l’Agenzia ha accesso a dati dei contribuenti inaccessibili ai contribuenti stessi?
In secondo luogo, più avanti si legge che l’associazione era affiliata all’UISP: viene ancora ignorata dai verificatori, dalle Commissioni Tributarie (oltre che forse dai ricorrenti, dato che la cosa non risulta essere stata contestata), la deliberazione CONI 52/29 del 19/5/2011, che afferma che l’affiliazione “sia da intendere quale riconoscimento definitivo fino al 31/12/2010”, e la Comunicazione del Direttore dell’Agenzia delle Entrate Prot. 114517/2011 con la quale tale deliberazione viene recepita e si raccomanda di “procedere al riesame in autotutela degli eventuali atti di accertamento emessi” sulla base di tale contestazione?
3) Come anticipato, decisamente più fondati, anche se non tutti, sono i rilievi relativi alle verifiche sulla democraticità; li elenchiamo esprimendo brevemente il nostro parere:
– “tutta la documentazione riguardante la vita dell’associazione si riduce alle semplice tenuta del libro delle assemblee”; quali altri adempimenti sarebbero necessari? mancano le convocazioni delle assemblee (la cui inesistenza non viene peraltro contestata), altro non ci pare dovuto;
– “il libro riporta esclusivamente i verbali delle assemblee in cui viene deliberata l’approvazione dei rendiconti annuali e la nomina dei membri del consiglio direttivo”; su questo aspetto ci siamo già espressi più volte: accade spesso, nelle associazioni di piccole dimensioni, che le decisioni vengano prese dai soci in riunioni il più delle volte informali, e che quindi la mancata verbalizzazione sia solo un omesso adempimento formale; in mancanza di una verbalizzazione è però comunque onere dell’associazione provare in altro modo che ciò sia effettivamente accaduto; in difetto, la contestazione sull’assenza del requisito della democraticità è difficilmente superabile;
– “la partecipazione alle assemblee è limitata alla presenza di pochi soci”; continuiamo a ripetere che, in presenza di regolare convocazione, ciò non può costituire indizio di assenza di democraticità: è ciò che accade in tutti gli organismi collettivi a larga base partecipativa, senza eccezione alcuna;
– “i verbali hanno contenuto estremamente sintetico … e … forma perfettamente identica”; non è certo un buon segno, ma far diventare ciò “la prova evidente dell’assenza di partecipazione dei soci … alla vita dell’associazione” è un passaggio logico non del tutto convincente; il medesimo ragionamento vale per i verbali del consiglio direttivo.
4) Gravemente illegittima è invece l’affermazione della sentenza che il “fitness – è noto – consiste in una disciplina individualistica il cui obiettivo principale è il benessere fisico del singolo e non già la promozione dello sport”; al di là dell’evidente incompetenza degli organi sia dell’accertamento che della giustizia tributaria nel giudicare su una materia di esclusiva competenza del CONI e degli organi della giustizia sportiva, siamo in presenza di un’opinione malauguratamente ancora troppo diffusa, che gli stessi organi centrali dell’Agenzia hanno peraltro abbandonato da tempo.
5) Le stesse considerazioni valgono per la censura dipendente dal fatto che “il Circolo non organizza gruppi per la partecipazione a campionati, concorsi o altre manifestazioni di carattere sportivo”.
6) E ancora la sentenza prosegue affermando che “una attività incentrata sulla pratica del fitness è più funzionale ad una strategia commerciale … che non ad una strategia promozionale dell’attività sportiva”; dato che il fitness è sport, non vediamo proprio la contraddizione.
7) Altro elemento presente in tutti gli accertamenti è che viene “richiamata l’attenzione sulle forme di pubblicità adottate” e che il Circolo propone “pacchetti di abbonamento differenziati e promozioni”; non ci stancheremo mai di ripetere che tutti coloro che si rivolgono al pubblico, che abbiano fini commerciali o no, se vogliono ampliare (o anche solo mantenere) la platea dei soggetti che partecipino alle iniziative proposte, non possono che utilizzare forme di pubblicità e/o promozione della propria attività; riteniamo sufficiente citare i manifesti, i volantini, le e-mail che tutti noi stiamo ricevendo per la destinazione del 5 o 8 per mille, le campagne dell’AVIS o delle varie associazioni per la lotta alle malattie, e così via.
8) Ancor più gravi sono i passaggi della sentenza nei quali si sostiene:
– che l’intento commerciale appare evidente dal fatto che vengono concessi periodi di prova,
– che “la differenziazione delle tariffe per tipologia di servizio reso non risponde a una logica di promozione sportiva”,
– che “la limitazione per contratto della possibilità di accesso alle strutture dell’associazione … è nettamente in contrasto con lo spirito tipico delle associazioni sportive”,
– che è censurabile che esistano “pacchetti … economicamente più convenienti in quanto contenenti delle limitazioni nell’orario di accesso alla palestra, ciò che comporta la violazione dell’art. 9 dello statuto”.
Tutti questi rilievi sono fondati su una visione dell’attività sportiva dilettantistica che definiremmo favolistica: solo nel mondo delle favole gli impianti sportivi sono aperti sempre a tutti, puliti, riscaldati, con istruttori a disposizione, con spogliatoi igienicamente adeguati, senza limitazioni. Ma chi paga?
Oppure i verificatori e i giudici immaginano circoli super-esclusivi, nei quali le quote annuali, fisse e uguali per tutti, sono talmente alte da risolvere l’aspetto economico, senza richiedere fastidiose divisioni, un po’ come i pacchetti all-inclusive di alcuni villaggi turistici, non certo i più economici.
La verità è che anche le associazioni sportive, che hanno vantaggi fiscali ma, quantomeno le palestre, non percepiscono certo contributi pubblici o donazioni, come tutti (e non pensiamo alle aziende, ma alle persone fisiche, alle famiglie) debbono fare i conti con l’equilibrio di entrate e uscite. E allora, proprio per consentire l’accesso all’attività sportiva al maggior numero possibile di persone, compreso chi altrimenti non potrebbe permettersela, strutturano i propri listini (e non vediamo proprio nulla di male nell’utilizzare questo termine) per:
– evitare un sovraffollamento che non consentirebbe di allenarsi correttamente nelle ore di maggiore accesso, fissando prezzi più alti nelle fasce orarie di maggior afflusso (la pausa pranzo e dall’uscita dal lavoro in avanti);
– consentire l’accesso a prezzi contenuti a categorie meno abbienti (giovani e anziani in particolare) in fasce orarie nelle quali “c’è spazio” e che loro possono sfruttare (la mattina per gli anziani e il pomeriggio per i ragazzi);
– richiedere quote più alte per attività che effettivamente comportano più costi (il nuoto o le attività che richiedono attrezzature più complesse) e quote più basse per le altre;
– invogliare chi non ha mai praticato sport a iniziare a farlo, concedendo periodi di prova gratuiti o a prezzi contenuti;
– premiare che fa opera di divulgazione dell’attività sportiva, convincendo a farla anche amici o conoscenti, con sconti o periodi gratuiti, e così via.
9) Assai delicata è poi la procedura di raccolta di informazioni tramite questionari, le cui domande sono spesso poste in modo da “guidare” chi risponde verso conclusioni già in qualche modo predisposte; alla questione Fiscosport ha già dedicato un articolo specifico (F. Scendoni, La valenza in giudizio dei questionari distribuiti dai verificatori ai frequentatori di un centro sportivo, in Newsletter n. 8/2012) e avremo sicuramente occasione di tornarci. Certo è che continueremo a ripetere fino alla noia che è fondamentale che le a.s.d. si premurino di fare tutto quanto nelle loro possibilità perché i loro soci siano ben consapevoli di tale loro qualifica: deve essere ben chiarito cosa significa firmare la richiesta di ammissione a socio, non costa nulla raccomandare agli istruttori di far presente nei loro corsi che è stata convocata l’assemblea, è semplicissimo affiggere in bacheca i nominativi dei consiglieri, altrettanto semplice affiggere, ben visibile, un banale cartello “ingresso riservato ai soli soci”, e così via; basterebbero queste banalità, e buona parte dei questionari avrebbero esito diverso.
10) Infine, qualche parola sull’affermazione che “L’attività esercitata non si differenzia … sotto nessun aspetto dall’attività svolta da qualsiasi palestra gestita in forma individuale o societaria sia per le modalità di erogazione dei servizi, sia per l’ammontare delle tariffe applicate”.
Ciò è assolutamente vero, ma negli ultimi mesi due fonti, il Ministero del Lavoro (Circolare Prot. 37/4036 del 21/2/2014) e il Ministero dell’Economia e delle Finanze (Decreto di approvazione del modello di dichiarazione IMU ENC e relative istruzioni, del 26/6/2014), sulla cui autorevolezza non ci pare possano esserci dubbi, hanno chiarito in via ufficiale che la differenza fra gli enti senza scopo di lucro e le imprese commerciali non sta nella tipologia di attività svolta, ma nelle modalità con le quali essa è svolta.
Richiamiamo quanto abbiamo scritto su tali documenti, rimandando alla lettura degli articoli (I rapporti di lavoro sportivo ex art. 67 T.U.I.R.: avevamo ragione fin dall’inizio? e Le istruzioni alla dichiarazione IMU fissano principi di grande importanza per lo sport dilettantistico per ogni eventuale approfondimento.
Per quanto riguarda la Circolare del Ministero del Lavoro, essa ricorda che “mediante il riconoscimento le società e le associazioni … entrano a far parte dell’ordinamento sportivo e sono quindi sottoposte sia alle norma di tale ordinamento che a quelle dell’ordinamento statale. Tali caratteristiche delineano pertanto una netta differenziazione tra le SSD/ASD e le realtà imprenditoriali che “gestiscono” lo sport con fini di lucro” [in grassetto nella Circolare, n.d.a.].
In sostanza, essa chiarisce che nel momento in cui si intende svolgere un’attività sportiva si effettua una scelta ben precisa:
– ci si assoggetta alle ben precise e limitative regole del mondo sportivo dilettantistico senza scopo di lucro, fissate in primo luogo dall’art. 148, comma 8, del T.U.I.R. e dall’art. 90, comma 18, della Legge 289/02 (divieto di distribuzione di utili, divieto di cessione delle quote, ecc.), ma non solo: all’obbligo della certificazione medica, ai provvedimenti disciplinari e alle clausole arbitrali delle Federazioni, alla normativa antidoping, alle formalità (e ai costi) di affiliazione e tesseramento, e così via, e allora si ha diritto alle agevolazioni fiscali
– non ci si assoggetta a tale complesso di disposizioni e allora, mancandone i presupposti, non si ha diritto alle agevolazioni fiscali.
Nelle istruzioni alla dichiarazione IMU ENC approvate dal Decreto M.E.F. si legge che “L’attività sportiva dilettantistica svolta dalle società ed associazioni sportive dilettantistiche riconosciute ai sensi dell’art. 90 della legge n. 289 del 2002, consiste nella formazione, didattica, preparazione ed assistenza allo sport svolto a livello dilettantistico e amatoriale a fronte della corresponsione da parte dei frequentatori dell’importo dell’iscrizione”.
Si legge poi che “l’importo dell’iscrizione ha la mera funzione di consentire alle società e alle associazioni sportive dilettantistiche di organizzare l’attività sportiva all’interno delle Federazioni sportive nazionali e degli Enti di promozione sportiva, secondo quanto previsto dalla normativa di settore”.
E così concludono le istruzioni, dopo una lunga digressione: “Alla luce di quanto esposto, si può, dunque, affermare che gli importi richiesti dalle associazioni sportive e dalle società sportive dilettantistiche riconosciute dal CONI, ai propri tesserati non rappresentano, per l’organizzazione e la gestione stessa delle diverse discipline sportive esercitate, dei corrispettivi, bensì semplicemente delle quote di iscrizione per lo svolgimento di un ben definito percorso formativo. Pertanto, gli importi in questione possono essere considerati di carattere simbolico e comportare conseguentemente l’applicazione del beneficio ai fini IMU”.
E questa affermazione è ancor più chiara se affiancata alla normativa su imposte dirette e IVA: la c.d. “decommercializzazione dei corrispettivi specifici” contenuta nell’art. 148 del T.U.I.R. e nell’art. 4 del D.P.R. 633/72 si giustifica proprio perché nella sostanza non si tratta di corrispettivi, bensì di mero strumento di ripartizione fra i soci dei costi dell’associazione.
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In conclusione, ribadiamo però e con forza che tutti i rilievi che abbiamo fatto sui vari passaggi della sentenza vanno coordinati con quanto abbiamo detto in apertura di questo articolo: se dalla verifica in concreto emergono elementi che visti nel loro insieme costituiscono indizi “gravi, precisi e concordanti” di assenza di democraticità, di mancanza dell’effettività del rapporto associativo, di possibili ricavi o costi non dichiarati, allora il disconoscimento dello status di associazione sportiva dilettantistica senza scopo di lucro e quindi delle relative agevolazioni fiscali è sacrosanto, perché, e ci piace concludere citando testualmente l’ultima parte del commento alla sentenza in esame, pubblicato sulla rivista telematica dell’Agenzia delle Entrate FiscoOggi:
“gli enti associativi non godono di uno status di extrafiscalità, che li esenta, per definizione, da ogni prelievo fiscale, occorrendo sempre tenere conto della natura delle attività svolte in concreto” (cfr Cassazione 4148/2013, 15321/2002 e 16032/2005).
E l’onere – ha stabilito sempre la Cassazione – di provare la sussistenza dei presupposti di fatto che giustificano l’agevolazione sull’IRPEG (ora IRES), nonché quella sull’IVA (articolo 4, decreto Iva), è a carico del soggetto collettivo che la invoca, secondo gli ordinari criteri stabiliti dall’articolo 2697 del codice civile (cfr Cassazione 16032/2005, 22598/2006, 11456/2010 e 8623/2012)”.
Contestiamo la corretta applicazione pratica di tali principi ogni volta che ci pare opportuno, ma in linea di principio non possiamo che condividerli in toto.