Il caso riguarda i compensi corrisposti a una ventina di istruttori di fitness da parte di una a.s.d. regolarmente iscritta al Registro Coni e, all’esito dei tre gradi di giudizio, vede confermata la pretesa contributiva INPS per mancanza delle condizioni previste dall’art.67 comma I lett.m). Una lettura accorta della pronuncia di legittimità consente di concludere che il principio affermato è quello ben noto – e scontato – secondo cui le agevolazioni fiscali previste in favore delle a.s.d. non dipendono solo dall’elemento formale della veste giuridica assunta, ma anche dall’effettivo svolgimento di attività senza fine di lucro.
Il principio è costantemente seguito dalla giurisprudenza tributaria (Cass.n.10393/2018; Cass.16449/2016; Cass.8623/2012 in materia di imposte sui redditi) ed è qui stato recepito e applicato dalla sezione lavoro anche all’esenzione contributiva sui compensi. Non si tratta peraltro di una novità perché in tal senso si erano già espresse anche Cass. sez.lav. n.11492/2019 e Cass. sez. lav. n. 5904/2016.
In definitiva – afferma la Corte – se l’attività svolta non è di tipo sportivo dilettantistico ma ha natura commerciale, i compensi pagati agli istruttori per attività di natura commerciale sono soggetti a contribuzione. E omologo ragionamento vale per l’imponibilità fiscale, come si leggeva già in Cass. n. 23789/16, in tema di ritenute: il regime di favore presuppone che i compensi siano erogati da e nell’ambito di un’associazione di tipo sportivo-dilettantistico e quindi elemento determinante, ai fini del trattamento fiscale agevolato, è proprio la natura del soggetto nei cui confronti le prestazioni sono eseguite.
È ormai un dato acquisto che il riconoscimento formale dell’iscrizione al CONI sia condizione necessaria ma non sufficiente per usufruire delle agevolazioni fiscali; tanto per le decommercializzazione dei corrispettivi specifici – che richiede il concreto rispetto delle clausole statutarie improntate all’effettività del rapporto associativo, al principio di democraticità interna e partecipazione e al divieto di distribuzione di utili anche in modo indiretto – quanto per l’applicazione del regime dei redditi diversi, che presuppone l’esercizio diretto di attività sportiva dilettantistica, ora definito dall’elenco delle discipline ammissibili e dai contenuti del Registro 2.0 diretti a documentare l’effettivo svolgimento di attività riconosciuta a fini sportivi dilettantistici attraverso i dati relativi ad eventi sportivi, didattici e formativi.
In definitiva il principio affermato nella pronuncia non presenta alcun elemento di novità né di preoccupazione.
Per il resto la Corte non spiega, ovviamente, perché l’attività svolta dalla a.s.d. sarebbe commerciale e non dilettantistica.
Per cogliere l’effettiva portata di una pronuncia della Suprema Corte si consideri innanzitutto che l’accertamento sulla concreta attività svolta, in quanto apprezzamento di fatto, compete al giudice di merito (Tribunale e Corte d’Appello) ed è insindacabile in sede di legittimità. Inoltre il giudizio di Cassazione è incardinato secondo uno schema rigido, il cui ambito è definito dai vizi della sentenza impugnata, tassativamente previsti dalle norme del codice di procedura civile, che la parte ricorrente abbia fatto valere. Per semplificare: nel giudizio di Cassazione è preclusa ogni nuova valutazione nel merito, anche sotto forma di censura alla motivazione della sentenza impugnata (ad esempio sul cosa facessero gli istruttori o su quali fossero i destinatari dei corsi e così via) mentre l’enunciazione del principio di diritto deriva necessariamente dalla formulazione dei motivi di ricorso.
Quindi, a proposito di fitness, è più interessante una breve riflessione sulle conclusioni della sentenza di merito posta al vaglio della Suprema Corte. Si tratta della sentenza della Corte d’Appello di Genova n.372/2013; pronuncia risalente che però elabora un ragionamento recepito anche di recente da App. Genova 20/3/2019.
Innanzitutto la corte territoriale sposa una nozione ampia di attività sportiva tale da ricomprendere anche attività inerenti al mero esercizio fisico e, al riguardo, richiama la definizione della Carta Europea dello Sport del 1992 secondo cui per sport deve intendersi “qualsiasi forma di attività fisica che attraverso una partecipazione organizzata o non, abbia obiettivo l’espressione o il miglioramento della condizione fisica e psichica, lo sviluppo delle relazioni sociali e l’ottenimento di risultati in competizione di tutti i livelli”.
A seguire, la Corte d’Appello afferma che la nozione di dilettantismo non può essere ricavata dall’art 3 della L. 81/91 ma deve essere individuata nell’assenza di interessi economici lucrativi o, più genericamente, di guadagno patrimoniale sottesi all’attività sportiva.
Deve emergere dalle risultanze istruttorie, il cui onere è a carico della a.s.d., che l’attività svolta ha natura dilettantistica nel suo complesso – prosegue la Corte – e in termini di estraneità rispetto al coinvolgimento di significativi interessi economici.
Quindi sono le modalità di gestione che assumono rilievo per scriminare la natura dell’attività e non tanto il tipo di sport praticato, la cui nozione è ampia e comprende anche le attività di mera cura dell’esercizio fisico.
Tuttavia, in tale ambito, trattandosi di attività gestibili anche in forma spiccatamente commerciale (si tratta nel caso di specie di fitness, aerobica, body building, ginnastica per la terza età come risultanti dall’iscrizione al CONI), l’estraneità rispetto agli interessi economici dovrà emergere da riscontri più penetranti. In tale contesto, secondo la Corte, assume rilevanza anche la circostanza della mancata partecipazione a gare e manifestazioni (unitamente ad altri fattori come – per quanto si desume dalla parte motiva – la mancanza di prova che l’attività fosse svolta a favore di appartenenti dell’associazione).
Se le premesse sono pienamente condivisibili – nel senso che la qualificazione di attività dilettantistica determinata per esclusione rispetto a quella professionistica, non autorizza a presumere l’assenza dello scopo di lucro nella gestione delle attività – qualche perplessità desta il ragionamento sulla pratica del fitness, che sottende una sorta di presunzione di commercialità quando non siano dimostrate attività finalizzate alla competizione e ciò con evidente contraddizione rispetto alla nozione ampia di sport espressamente condivisa dal giudicante. Nonché in contrasto con l’interpretazione autentica fornita dal legislatore – seguita da prassi e giurisprudenza – secondo cui l’esercizio diretto dell’attività sportiva dilettantistica comprende anche la didattica non finalizzata all’agonismo [1].
E del resto anche il ridimensionamento operato dal CONI, con l’adozione degli elenchi delle discipline ammissibili, mantiene e riconosce una serie di attività che si connotano per la totale carenza di finalità competitiva: basti citare le discipline contenitore della ginnastica finalizzata alla salute e al fitness e della cultura fisica finalizzata al fitness e al benessere fisico.
Pertanto il principio elaborato dalla corte di Genova – sotto questo aspetto isolato rispetto ad altri orientamenti della giurisprudenza di merito che invece affermano la piena riconducibilità del fitness nel novero delle pratiche sportive dilettantistiche [2] e riconoscono la spettanza delle agevolazioni, sempre che siano rispettati i parametri di una gestione non lucrativa – non convince fino in fondo.
È auspicabile allora che i contenuti del nuovo Registro 2.0 – come è negli intenti dichiarati del CONI – possano davvero sortire effetti certificatori sostanziali dell’effettiva attività sportiva dilettantistica: la comprovata partecipazione a eventi sportivi, formativi e didattici, rispettivamente organizzati e autorizzati dall’organismo affiliante (FSN/DSA/EPS) da parte delle a.s.d/s.s.d., si candida ad assumere un ruolo distintivo dell’attività di fitness in ambito sportivo dilettantistico rispetto ad analoghi servizi offerti dai soggetti profit. Del resto i tipici indici di commercialità possono non essere dirimenti: si pensi ad esempio alla pratica dei prezzi di mercato, che indubbiamente ha perso di rilievo con l’avvento della multinazionali del fitness low-cost che offrono abbonamenti open a 19,90 euro al mese. Ecco allora che la pretesa differenziazione potrebbe realizzarsi proprio nei contenuti del registro, capaci di comprovare che il sodalizio opera effettivamente nell’ambito dello sport dilettantistico organizzato e non nel campo dei servizi alla persona; fermo restando naturalmente il rispetto concreto – e l’onere della prova in giudizio – di ogni altro parametro idoneo a escludere la finalità di lucro, la distribuzione di utili anche indiretta e il rispetto delle clausole statutarie.
Se poi, de iure condendo volessimo superare il binomio “dilettantistico” / “assenza di scopo di lucro” (che nell’ordinamento positivo contraddistingue il settore, differenziandolo da quello professionistico) e individuare nuovi modelli, adatti a gestire grandi impianti e centri fitness, capaci di attrarre investimenti nel settore – indubbiamente meritevole di incentivi per l’importante ruolo di funzione sociale e di prevenzione che riveste a tutela della salute pubblica – allora si potrebbero evitare forzature e distorsioni, in un quadro di maggiori certezze normative per gli operatori.
Il primo pensiero va alle c.d. lucrative, le società profit sportive dilettantistiche previste dalla legge di bilancio 2018 e subito dopo abrogate dal decreto dignità: avrebbero potuto incontrare tali esigenze? Probabilmente sì. Ma questa è un’altra storia.
[1] L’art. 35 comma V del D.L. 30/12/08 N. 207 convertito in l. 27/2/09 n. 14 dispone che: “Nelle parole esercizio diretto di attività sportive dilettantistiche contenute nell’articolo 67 comma I lett.m) del TUIR sono ricomprese la formazione, la didattica, la preparazione e l’assistenza all’attività sportiva dilettantistica”.
Per la prassi : Agenzia delle Entrate, Risoluzione n. 38/E del 2010; Enpals circolare 9/11/2009 n.18
In giurisprudenza ex multis C.App. Firenze, n.683/14; Trib. Venezia, sez. lav.,n. 1060/2010; Trib. Venezia, sez. lav. n.536/14; C. App. Milano, n.1172/2014;C. App. Bologna, n.250/2016