Con la sentenza 02.12.1997 n.12193 che si evidenzia, la Corte di Cassazione Sezione si è pronunciata sulla diversa rilevanza della natura dell’attività (pericolosa o innocua), ai fini della responsabilità ex art.2050 c.c. ovvero 2043 c.c. In particolare, la Suprema Corte ha enunciato il principio per cui <Per “attività pericolose”, agli effetti di cui all’art. 2050 c.c., devono intendersi quelle così qualificate da specifiche norme destinate a prevenire sinistri e a tutelare l’incolumità pubblica, ovvero quelle per le quali la pericolosità trova riscontro nella natura delle cose e dei mezzi adoperati, mentre non possono considerarsi tali le attività nelle quali la pericolosità insorga per fatti estranei (in applicazione del suddetto principio la Cassazione ha confermato la decisione della Corte territoriale che escludeva il carattere pericoloso di una sauna gestita all’interno di un centro di benessere).>
Di seguito si riporta il testo della sentenza in parola.
(omissis)
FATTO
Il 13 dicembre 1985 E.<…>, subito dopo essersi sottoposta alla sauna in locali della società <…>, cadde, producendosi lesioni personali.
Con atto di citazione, notificato l’8 settembre 1987, la predetta – tanto premesso e premesso, altresì, che la caduta era stata determinata da perdita di conoscenza, a sua volta provocata dallo sbalzo di temperatura, valutabile in 60 70, esistente tra il locale, adibito a sauna, e quello attiguo, destinato a doccia, nel quale il fatto si era verificato, e le finestre del quale, e dei locali adiacenti, erano aperte “da parecchio tempo” per lavori di ripristino – convenne, dinanzi al Tribunale di Milano, la menzionata società, ne dedusse la responsabilità sia ai sensi dell’art. 2051 c.c., in quanto custode delle cose, sia in forza del contratto di abbonamento, contenente l’espresso testuale obbligo di vigilare “con diligenza affinché nei suoi locali non si verificassero (verifichino) incidenti, lesioni, malattie o comunque eventi dannosi alla persona dei clienti” nonché di provvedere “altresì a copertura assicurativa dei relativi rischi, con adeguati massimali presso primarie compagnie assicuratrici; la società risponderà pertanto nei confronti dei clienti per eventuali danni nei limiti e per gli importi di cui alle polizze assicurative”, ne chiese la condanna al risarcimento del danno conseguente, ed aggiunse che con lettera del 9.6.1986 la stessa società aveva riconosciuto la propria responsabilità ed aveva invitato la compagnia d’assicurazione a provvedere alla liquidazione del danno.
La domanda, cui la convenuta resistette, fu respinta dal Tribunale adito, all’esito dei mezzi istruttori espletati (interrogatorio formale, prova testimoniale ed acquisizione di documenti) con sentenza del 23 luglio 1992, poi confermata dalla Corte di Appello con la decisione, ora gravata.
La Corte ha ritenuto in primo luogo che l’attrice non aveva provato nè che l’evento dannoso fosse stato cagionato dall’allegato sbalzo di temperatura, nè che la finestra del locale doccia fosse aperta, ed ha quindi considerato ininfluente ai fini del decidere, oltre che tutt’altro che scontata, la tesi, secondo la quale la sauna costituisce attività pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c., dal momento che il danno veniva allegato in relazione non già all’uso della sauna, sibbene ad una circostanza esterna, che con questa nulla aveva a che vedere.
Non sussisteva – ha aggiunto – responsabilità contrattuale, non essendo provato il fatto illecito dell’assicurato “nè nell’elemento oggettivo (nesso causale) nè in quello soggettivo (colpa)”, ed infine la lettera del 9.6.1986 della società al proprio assicuratore non conteneva alcun riconoscimento di responsabilità, ma solo il generico invito “a voler provvedere a quanto dovuto nel rispetto delle norme contrattuali”.
Per la cassazione di tale decisione la <…> ha proposto ricorso, affidato a tre motivi. La società resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
DIRITTO
1. Con il primo motivo la ricorrente deduce, con riferimento all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1913 e 2735 c.c., nonché vizio di motivazione su punto decisivo, ed afferma che, come si sarebbe dovuto desumere dal suo tenore, la lettera raccomandata inviata dalla società, in data 9.6.1986, al proprio assicuratore e, per conoscenza, anche alla sig.<…>, contiene la confessione stragiudiziale della responsabilità di essa società.
Il motivo è infondato.
Deve premettersi che, diversamente da quanto la ricorrente sembra sostenere, non è ravvisabile alcun automatismo tra l’avviso di sinistro, che l’assicurato è tenuto ad inviare al proprio assicuratore ai sensi dell’art. 1913 c.c., e la confessione stragiudiziale, pur non essendo affatto escluso che anch’esso possa assumere, nei confronti del soggetto danneggiato, tale ulteriore contenuto: accertare se esso ricorra nei singoli casi è, peraltro, questione di fatto, come tale rimessa al giudice del merito, la cui decisione non è sindacabile in sede di legittimità se adeguatamente e logicamente motivata.
Secondo quanto disposto dall’art. 2730 c.c. la confessione, sia giudiziale che stragiudiziale, è la dichiarazione che la parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte.
Pur enunciando vizi di motivazione, la ricorrente non indica, però, nel contenuto dell’atto, espressioni, eventualmente trascurate dalla sentenza impugnata, riconducibili a detta norma, tali evidentemente non essendo la data dell’evento, il nome della danneggiata, l’iniziale denuncia di infortunio, l’importo del risarcimento richiesto, la perdurante vigenza dell’assicurazione, i precedenti inviti a provvedere: circostanze, queste, sulle quali ella essenzialmente svolge le sue difese.
Non rileva, in senso contrario, la circostanza, ad esso estrinseca, che l’atto venne inviato per conoscenza anche alla infortunata, dal momento che la natura confessoria di un atto deve essere desunta da elementi, ad esso intrinseci e, nella specie, insussistenti, come hanno motivatamente – e, pertanto, insindacabilmente – ritenuto i giudici del merito.
2. Con il secondo motivo, la ricorrente “denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c. la violazione dell’art. 2050 c.c., nonché degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c. e la errata e insufficiente motivazione con riferimento al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. sia sotto il profilo degli artt. 112 e 115 c.p.c., che per omessa considerazione di documento idoneo a risolvere la controversia”.
La complessa censura investe il punto della decisione, concernente la natura, asseritamente pericolosa, della pratica della sauna, che la ricorrente lamenta non sia stato affrontato dalla Corte territoriale, perché ritenuto ininfluente ai fini del decidere, e riguarda l’accertamento della causa del danno, la distribuzione dell’onere della prova e l’applicabilità o meno del citato art. 2050.
Deve preliminarmente rilevarsi che nell’atto introduttivo l’attrice, dedotta la responsabilità sia contrattuale che aquiliana della convenuta, richiamò sotto tale ultimo profilo il solo art. 2051 c.c. (danno cagionato da cosa in custodia): prospettazione, questa, poi abbandonata e ritualmente, come è incontroverso, mutata nella allegata responsabilità per esercizio di attività pericolosa.
Tanto precisato, deve rilevarsi, quanto alla causa del danno lamentato, che la ricorrente, pur dopo aver espressamente riconosciuto di non aver “potuto fornire la prova in termini risolutivi che, al tempo della uscita dal locale sauna, la finestra …. era aperta”, indica poi una serie di elementi di fatto, desunti dalla citata lettera del 9.6.1986, da clausole contrattuali ovvero della situazione dei luoghi (accessibilità della finestra a tutti, frequente passaggio di operai….), dai quali sembra voler trarre che, diversamente da quanto ritenuto dalla sentenza impugnata, la finestra era in effetti aperta, e ad essa, ed allo sbalzo di temperatura così provocato, era da ricondurre il danno.
In tali sensi, la censura è tuttavia inammissibile, perché essa, pur prospettata come vizio di motivazione, si risolve in effetti in una diversa lettura delle risultanze processuali, non consentita in sede di legittimità data la esauriente e logica motivazione della sentenza, la quale ha osservato che l’unica teste oculare non è stata in grado di confermare la circostanza.
Se, pertanto, deve ritenersi che il danno fu prodotto da causa, rimata ignota, le successive censure attengono alla individuazione della persona (attrice o convenuta), che di tale carenza probatoria si giova: la convenuta, secondo quanto affermato dalla Corte territoriale, la quale, astrattamente, ancorché solo implicitamente, ravvisata una responsabilità ex art. 2043 c.c., ha, del pari implicitamente, applicato la regola “actore non probante, reus absolvitur”.
Come premesso, è stata prospettata la responsabilità anche contrattuale della convenuta, e tuttavia, non essendo dedotta, quanto alla distribuzione dell’onere della prova, la violazione dell’art. 1218 c.c., il relativo thema decidendum è conseguentemente ristretto all’alternativa dell’applicabilità dell’art. 2043 ovvero dell’art. 2050 c.c.
Come questa C.S. ha più volte avuto occasione di affermare, per attività pericolosa, agli effetti di quest’ultima norma, devono intendersi quelle così qualificate da specifiche norme destinate a prevenire sinistri e a tutelare l’incolumità pubblica, ovvero quelle per le quali la pericolosità trova riscontro nella natura delle cose e dei mezzi adoperati (in tal senso, da ultimo, sez. I, 9.12.1996 n. 10951): in difetto, come nella specie, di specifiche norme, non indicate dalla ricorrente, il giudizio di pericolosità è demandato al giudice del merito e non è sindacabile in sede di legittimità se della relativa decisione sia stata data congrua e logica motivazione.
Nella specie, la Corte territoriale, pur avendo espressamente qualificato la questione come ininfluente ai fini del decidere, ha poi aggiunto che era tutt’altro che scontata la dedotta pericolosità della sauna, senza affatto negare che l’esercente era tenuto all’osservanza del precetto del neminem laedere: della cui violazione non v’era però prova, a carico della danneggiata ex art. 2043 c.c., come essa ha conclusivamente ritenuto.
In tali argomentazioni non sono riscontrabili vizi motivazionali, con la conseguenza che la violazione dell’art. 2050 c.c., prospettata per effetto dei vizi dedotti, non sussiste: in esse è, invero, ravvisabile una duplice ratio decidendi, con la conseguenza che, sebbene sia erronea quella, affermativa della ininfluenza della questione, è invece legittima e motivata, sebbene concisamente, l’altra, la quale di per sè sola è idonea a sorreggere l’assunta decisione.
Questa Corte Suprema ha, infatti, affermato che dall’attività pericolosa deve essere tenuta distinta quella normalmente innocua, la quale diventi pericolosa per la condotta di chi la esercita, che comporta responsabilità secondo la regola generale, posta dall’art. 2043 c.c. (sent. n. 13530-92), ed ha anche precisato che è pericolosa l’attività che, per sua stessa natura od anche per i mezzi impiegati, renda probabile, e non semplicemente possibile, il verificarsi di un evento dannoso, e che il giudizio di pericolosità deve essere espresso non già sulla base dell’evento dannoso, effettivamente verificatosi, sibbene secondo una prognosi postuma, che il giudice deve compiere sua sulla base di nozioni desunte dalla comune esperienza, sia tenuto conto delle circostanze di fatto che si presentavano al momento dell’esercizio dell’attività ed erano conosciute o conoscibili dall’agente in considerazione del tipo di attività esercitata (sent. n. 9205-95).
Il giudizio di non pericolosità, cui la Corte territoriale è pervenuta, appare aderente a tale indirizzo, nè, del resto, la ricorrente indica circostanze di fatto o dati di comune esperienza, eventualmente da essa trascurati, tali da comportare una diversa decisione, dal momento che la pericolosità viene di per sè dedotta dall’evento dannoso: in contrasto, pertanto, con quanto sopra rilevato.
3. Il terzo motivo investe – sotto i profili del vizio di motivazione e della violazione di legge (artt. 1367, 1366 e 1370 c.c.) – l’interpretazione della clausola contrattuale n. 2 e, in contrasto con la sentenza impugnata, la quale l’ha ritenuta inidonea a fondare la allegata responsabilità della società in difetto della prova del nesso materiale di causalità e della colpa, adduce che, in forza di essa, “il cliente per il solo fatto dell’accadimento dell’infortunio, e quindi dell’accadimento per sè dannoso, indipendentemente dalla ricorrenza di altri presupposti e condizioni – salvo dolo o simili, che qui non vengono in considerazione – viene risarcito”.
Anche sul punto, la ricorrente prospetta una diversa, a lei più favorevole e tuttavia inammissibile – in questa sede di legittimità – interpretazione della clausola: la decisione della Corte è, infatti, chiaramente ancorata all’obbligo di diligenza, espressamente posto dalla clausola stessa, che la ricorrente trascura di considerare, privilegiando invece l’avverbio “comunque” (riferito ad eventi dannosi), che invece deve essere letto, come la Corte del merito ha fatto, in collegamento con la violazione di detto obbligo (e, quindi, con la colpa).
L’affermata e logica necessità della ricorrenza della responsabilità soggettiva – e non oggettiva, come invece pretende la ricorrente – dell’attuale resistente, rende ultronee le argomentazioni svolte riguardo al tipo di contratto di assicurazione (contro il rischio di infortunio ovvero per il rischio di responsabilità civile), che doveva essere stipulato in forza della stessa clausola, essendo stata detta soggettiva responsabilità motivatamente, e pertanto insindacabilmente, ritenuta non provata.
4. Il ricorso deve, conseguentemente, essere respinto.
(In Danno e resp. 1998, 567)