Nella citata Direttiva il Ministero evidenzia che su tale questione sono insorti numerosi contenziosi con esito in buona parte non favorevole per l'Amministrazione e per l'INPS.
Pur tuttavia non si può non riflettere sul fatto che laddove siano intervenute sentenze a favore dell'Amministrazione e dell'INPS, esse debbano essere attentamente valutate al fine di comprendere alcune logiche di fondo su cui si sono basati i giudici, specie nell'ultimo anno, e che, a prescindere da quanto indicato dalla suddetta Direttiva del Ministero del lavoro, potrebbero ancora portare a risultati negativi in ambito di contenzioso per le società/associazioni con situazioni di giudizio o di controllo ancora pendenti.
In tal senso è opportuno richiamare l'attenzione di tutti alla sentenza del tribunale di Roma – sez. Lavoro n. 9284/2013 pubblicata il 11.07.2013 – che ha condannato un'associazione sportiva accusata dall'INPS (ex Enpals) di gestire impropriamente i predetti rapporti di collaborazione sportiva mediante contratti a fiscalità agevolata (per intendersi quelli "esenti" fiscalmente fino alla soglia di Euro 7500 ai sensi dell'art. 67 comma 1, lett.m) del TUIR).
Il fondamento su cui si basa la sentenza è uno solo: poichè i collaboratori sportivi che esercitavano l'attività didattica erano in possesso di adeguate competenze tecniche (dunque "professionali"), agli stessi non potevano essere corrisposti compensi fiscalmente agevolati fino a 7500 euro in quanto tali istruttori erano da considerare dei professionisti.
L'interpretazione che danno i giudici dell'art. 67 comma 1 lett.m) del TUIR in merito alle collaborazioni sportive ed al loro corretto inquadramento nell'ambito della categoria dei redditi diversi appare davvero "superficiale", non però nel senso denigratorio del termine, ma nel senso di aver giudicato sulla base di quanto appare ad una prima lettura della norma. Una lettura più profonda della normativa di riferimento, messa peraltro in relazione con tutto il sistema giuridico che regola le collaborazioni sportive, avrebbe dovuto condurre i giudici ad altra valutazione. Ma, per quanto si dirà, è proprio l'intero sistema giuridico della materia che sta mostrando i suoi limiti di validità a causa sia di infelici/incomplete espressioni utilizzate dagli organi/enti deputati a normare (il legislatore) e ad attuare (con regolamenti, risoluzioni) quali agenzia entrate, ministero del lavoro, Enpals, sia di interpretazioni distorte da parte degli operatori del settore, che, a parere di chi scrive, appaiono spesso distanti dallo spirito autentico ed originario delle disposizioni agevolative.
Tutto ciò non può che portare da un lato a decisioni come quella del tribunale di Roma e dall'altro al rischio di un fiorire di contenziosi a dispetto delle recenti direttive del Ministero del lavoro a tutto discapito solo e soltanto del movimento sportivo italiano.
Più specificamente si vuole evidenziare in questa sede la distorsione della sentenza, come si direbbe in un ricorso tributario, sia "in diritto" che "in fatto". In questo caso, più che parlare di "fatto", bisogna riferirsi al concreto comportamento non della singola associazione interessata, ma di tutte le associazioni sportive, in quanto ciò che è accaduto all'associazione condannata, potrebbe accadere ad altre migliaia di associazioni sul territorio nazionale che si comportano allo stesso modo.
E già qui la prima domanda è d'obbligo: stanno sbagliando le migliaia di associazioni o sta sbagliando chi interpreta e giudica?
Venendo alle censure alla sentenza "in diritto", l'errore compiuto dai giudici, a parere di chi scrive, è quello di essersi limitati alla premessa dell'art. 67 del TUIR laddove si afferma che "sono redditi diversi se non costituiscono redditi di lavoro dipendente o autonomo".
Il passaggio successivo fatto dai giudici è stato quello di considerare "professionisti" (e quindi lavoratori autonomi) quegli operatori nello sport che esercitavano l'attività in modo abituale con "alle spalle un bagaglio di competenze tecniche spese nell'esecuzione della prestazione".
Tuttavia i giudici non hanno considerato che l'art. 67 comma 1 lett. m) del TUIR quando si riferisce alle "collaborazioni nell'esercizio diretto di attività sportive" non mette vincoli, limiti o divieti ai soggetti operatori, potenziali beneficiari della norma, nè fissa specifiche modalità contrattuali per poter beneficiare dell'agevolazione dell'esenzione fiscale fino a 7500 euro. La norma, infatti, si limita a dire che il beneficio fiscale spetta alle "collaborazioni dirette nello sport". Questa scarna espressione ha un valore enorme nell'ottica della massima estensione del beneficio a tutte le collaborazioni dirette nello sport se solo la si confronta con le limitazioni che nello stesso art.67, nello stesso comma 1, nella stessa lett. m) del TUIR il legislatore pone per altre tipologie di collaborazioni e specificamente per le collaborazioni amministrativo-gestionali e per i direttori artistici e i collaboratori tecnici di bande musicali, cori e filodrammatiche, nonchè dei collaboratori in ambito "amministrativo-gestionale".
Infatti per le collaborazioni di carattere amministrativo-gestionale il legislatore stabilisce che esse possono ricevere il beneficio dell'esenzione fiscale fino a 7500 euro purchè si tratti di collaborazioni "non professionali".
Analoga espressione "non professionali" è stabilita anche per i direttori artistici e collaboratori tecnici di cori, bande musicali e filodrammatiche.
In tal senso l'indicazione del legislatore è chiara: se l'attività amministrativo-gestionale, piuttosto che l'attività di direttore o collaboratore tecnico di bande, cori e filodrammatiche viene svolta da un "professionista", non può ritenersi applicabile il beneficio dell'esenzione fiscale fino a 7500.
Tale espressione "non professionale" non è invece presente quando la norma parla di "compensi per collaborazioni sportive". Una dimenticanza del legislatore? Strana combinazione. Forse, semplicemente, volontà del legislatore.
Direbbero alcuni interpreti della norma che era implicito nella normativa stessa la "non professionalità" proprio per quanto indicato nell'incipit dell'art.67 del TUIR. Ma allora non si comprende perchè il legislatore stesso abbia voluto inserire (o reinserire?) questa espressione "non professionale" nel disciplinare le collaborazioni dei direttori di bande cori e filodrammatiche (norma peraltro inserita nel corpo dell'art 67 comma 1 lett. m) solo nel 2006) e le collaborazioni amministrativo-gestionali (norma inserita nel corpo dell'art. 67 comma 1 lett. m) solo nel 2002).
Il fatto che il legislatore abbia inserito l'espressione "non professionali" per queste forme di collaborazioni, diverse dalle collaborazioni dirette nello sport, non può che confermare l'intento dello stesso di accettare che le collaborazioni sportive mantengano sempre e comunque le agevolazioni fiscali, salvo che non si instauri tra il datore di lavoro e il collaboratore sportivo un rapporto di lavoro dipendente o che il collaboratore non decida di esercitare questa professione con una partita IVA, inquadrandosi, in tal caso, nella categoria dei "professionisti", nell'accezione fiscale del termine.
In tal senso giova sottolineare in questa sede che la normativa in questione non solo consente l'esenzione fiscale fino all'importo dei 7500, ma prevede altresì l'applicazione di ritenuta a titolo d'imposta del 23% sull'importo che eccede i 7500, sempre in esenzione totale contributiva. Anche questa è una agevolazione prevista per questa tipologia di rapporti di collaborazione sempre inserita nell'ambito della categoria reddituale dei "redditi diversi".
Ora davvero non si comprende a quali fattispecie concrete si possa applicare questa normativa agevolativa fino ed oltre i 7500 euro, se si ritiene di escludere dalla stessa le collaborazioni caratterizzate da attività sportiva svolta con un titolo di studio adeguato o con un impegno costante, quotidiano di collaborazione coordinata e continuativa.
La didattica sportiva, nella normalità dei casi, è affidata a soggetti che hanno titoli adeguati, competenze adeguate a gestire in autonomia i percorsi di istruzione per la diffusione e la pratica dello sport.
Ad essi, secondo i giudici romani, non potrebbe applicarsi la normativa agevolativa sui compensi perchè essi sono "professionisti" e quindi obbligati ad avere la partita IVA.
Se così è, non può che prendersi atto che per poter beneficiare della normativa di favore occorre affidare la didattica dello sport a persone prive di competenze specifiche o prive di titoli di studio adeguati, incapaci di gestire in autonomia i percorsi di insegnamento (ed in tal senso lasciando emergere che comunque dovendo dipendere dalle direttive di qualche superiore preposto, non potrebbe che evidenziarsi un rapporto di lavoro dipendente e non certo inquadrabile nella categoria dei redditi diversi).
L'art. 67 del TUIR quindi sarebbe applicabile solo alle collaborazioni sportive affidate ad incompetenti, incapaci, inadeguati e potenzialmente in grado di fare più danni che bene!
Questa presa di posizione si aggiunge alla già difficile interpretazione dell'art. 67 che, nelle rigorose posizioni dell'ex Enpals, avrebbe davvero un raggio di applicazione limitato.
Vale la pena ricordare che secondo l'ex Enpals non rientrerebbero in questa normativa le collaborazioni sportive, riguardanti i direttori tecnici, i massaggiatori, gli istruttori, gli addetti agli impianti (si veda Circ. Enpals n. 7 e 8 del 30.3.2006), la cui attività nei confronti dell'associazione sportiva sia caratterizzata da elementi di "continuità", "sistematicità", "abitualità", "ripetitività" (si veda Circ. Enpals n. 13 del 7.8.2006).
Ma tali elementi sono proprio quelli che caratterizzano le più ordinarie collaborazioni sportive, specie con riferimento al lavoro di istruttori, allenatori che, in modo assolutamente coordinato e continuativo, in genere, svolgono la propria attività per una o più stagioni sportive con un impegno ripetuto, abituale, sistematico.
Sfugge, a chi scrive, a quanti e quali delle figure individuate dall'ex Enpals nella sua citata circolare possa allora concretamente applicarsi l'art. 67.
L'unica categoria di operatori nello sport che non subiscono le pretese contributive dell'ex Enpals è quella degli atleti. Questi infatti non essendo citati nella sopra richiamata Circolare dell'Enpals possono essere remunerati con l'art. 67 in esenzione d'imposta fino ad Euro 7500 e con la ritenuta a titolo d'imposta per la parte di reddito che eccede i 7500 e senza alcun obbligo di versamento di contributi previdenziali all'Enpals.
Questa impostazione dell'Enpals di escludere gli atleti dalla tutela previdenziale appare davvero contraddittoria. Se infatti le ragioni sottostanti la pretesa contributiva si rinvengono nell'intento di definire una tutela previdenziale a dei lavoratori che, in assenza di contributi, resterebbero privi di tale tutela, non si comprende perchè dal novero di questi lavoratori restino esclusi gli atleti che frequentemente svolgono la loro attività a tempo pieno e fino a soglie d'età tali per cui, a fine carriera, si ritroverebbero senza nessun accantonamento previdenziale per gli anni trascorsi nella pratica diretta dello sport e con assoluta difficoltà ad essere accolti nel mondo ordinario del lavoro.
Di loro l'ex Enpals si disinteressa?
L'agevolazione fiscale prevista dall'art. 67 quindi deve poter essere applicata a tutte le figure che operano nello sport perchè questo garantisce:
a) la sopravvivenza delle associazioni sportive;
b) la disponibilità di posti di lavoro;
c) lo sviluppo della pratica sportiva che, specie se affidata a istruttori titolati e competenti, può solo offrire bene e salute alla collettività, con ampi risparmi sociali ed economici per il paese.
Se tuttavia si volesse garantire un minimo di protezione sociale (previdenziale/assistenziale) ai lavoratori dello sport, potrebbe essere opportuno, per il tramite di un intervento legislativo, prevedere, per iniziare, non contributi onerosi, quali quelli attuali, ma soglie ridotte così come avvenne per le collaborazioni coordinate e continuative nel 1995.
Nello scenario delle contraddizioni in questo ambito dei compensi e dei contributi, inoltre, merita il posto d'onore la differenza di regole contributive che disciplinano i rapporti di collaborazioni degli istruttori sportivi a seconda che la loro remunerazione derivi da una società/associazione sportiva piuttosto che da un privato.
Infatti se il compenso venisse erogato da una società/associazione sportiva il preteso contributo previdenziale spetterebbe all'ex Enpals con l'aliquota del 33%, di cui il 9,19% a carico del lavoratore stesso e il 23,81% a carico del datore di lavoro.
Se invece il compenso venisse corrisposto direttamente da un privato che riceve la prestazione, allora i contributi previdenziali andrebbero versati alla "gestione separata INPS" nella misura del 27,72% a carico del lavoratore (il quale può aver operato a monte una rivalsa del 4% del proprio fatturato sul privato che ha ricevuto la prestazione).
In altri termini: a parità di prestazione, in un caso si devono versare i contributi all'ex Enpals, e nell'altro alla gestione separata dell'Inps.
E non migliora questa evidente distonia del sistema affermare che l'ex Enpals ora è stato assorbito dall'Inps in quanto permangono ancora le regole Enpals e l'incomunicabilità dei due cassetti previdenziali.
Ancora una volta appare quindi non più procrastinabile un intervento sulla materia da parte del legislatore che sia però in grado di discernere l'intero sistema operativo, giuridico, fiscale e contributivo.
L'esigenza da parte di tutti è una normativa che intervenga in tutti gli ambiti con semplicità e chiarezza.
Per questo è necessario che tale intervento parta da un solo principio chiaro: agevolare lo sport o privilegiare le tutele sociali (previdenziali e assicurative).
Entrambi i principi sono degni di rispetto e non ve n'è uno più importante dell'altro. Con un po' di impegno, competenza e buon senso sarà però possibile, con i dovuti ed equilibrati compromessi, salvarli entrambi in quel trionfo di grigio in grado di offuscare i rigorosi "bianchi" e "neri" che stanno imbrigliando e svuotando lo sport di base italiano.
E in tal senso la Direttiva del Ministero del lavoro sembra presentarsi nel modo giusto al momento giusto, specie laddove il Ministero evidenzia l'opportunità di farsi promotore, d'intesa con l'INPS, di iniziative di carattere normativo, volte ad una graduale introduzione di forme di tutela previdenziale a favore di soggetti che svolgono attività sportiva.
Meglio tardi che mai, ma purchè si agisca con competenza, completezza d'analisi ed in fretta per evitare che si formino altri giudizi nei contenziosi in essere, come quello preso ad esempio in questa sede.