Il cuore della Riforma è rintracciabile nel decreto denominato “Codice del Terzo Settore” (Decreto Legislativo 3 luglio 2017, n. 117, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 179 del 2 agosto 2017) e nel decreto sull’impresa sociale (Decreto Legislativo 3 luglio 2017, n. 112 e pubblicato in Gazzetta Ufficiale n.167 del 19 luglio 2017). In questo primo intervento intendiamo fornire un primo giudizio complessivo sulla Riforma, che per altro sarà oggetto di una analisi sistematica su questa Rivista, già a partire da questo numero (ove un articolo di Gianpaolo Concari, 5 per mille e Riforma del Terzo Settore) e proseguirà nei prossimi numeri, a partire chiaramente dalle disposizioni che più direttamente coinvolgono le organizzazioni sportive.
La prima domanda alla quale intendiamo rispondere è se l’intervento normativo che va sotto il nome di Riforma del Terzo Settore e che tante speranze aveva suscitato in una ampia fetta degli operatori dell’economia civile abbia centrato l’obiettivo di semplificare il quadro normativo fornendo una cornice chiara alle organizzazioni non profit.
La risposta purtroppo non può che essere negativa. La Riforma, pur di fronte ad alcuni apprezzabili tentativi di semplificazione, introduce una stratificazione di norme giuridiche e fiscali in alcuni casi di più difficile interpretazione delle precedenti e non rimuove ma anzi in molti casi amplifica le incertezze e le fragilità a cui le organizzazioni del Terzo Settore sono esposte in Italia.
Cerchiamo di spiegare il perché. Innanzitutto il legislatore ha fatto una scelta precisa: ha costruito uno spazio giuridico nuovo, perimetrato dal Codice del Terzo Settore, in cui le organizzazioni non profit possono o meno collocarsi. Alcune tipologie di enti, come le associazioni sportive dilettantistiche normate dalla legge 289/2002 sono tendenzialmente fuori da questo perimetro, fermo restando la possibilità di esserne incluse sia per scelta volontaria sia perchè la natura delle attività realizzate, come ad esempio le attività sportive a favore dei soggetti svantaggiati dai organismi qualificati come associazioni sportive Onlus, comporta l'assunzione della qualifica di ETS (Enti del Terzo Settore). Altre tipologie di enti, come ad esempio le associazioni culturali, potrebbero invece volontariamente rinunciare ad acquisire la qualifica di Ente del Terzo Settore. I soggetti estranei al Codice del Terzo Settore avrebbero come riferimento la vecchia e nella sostanza immodificata normativa codicistica e le disposizioni del T.U.I.R. sopravvissute al nuovo Codice del Terzo Settore.
Tra quelle che invece per scelta o necessità dovessero acquisire la qualifica di ETS si aprirebbero diversi scenari: bisognerebbe distinguere infatti tra ETS destinatari di una normativa generale e quelli destinatari di una disciplina speciale come le APS (Associazioni di Promozione Sociale) e le ODV (Organizzazioni di Volontariato). Bisognerebbe inoltre distinguere tra enti non commerciali del Terzo Settore ed enti commerciali, tra cui spicca l’impresa sociale, destinataria di una normativa ad hoc.
La coerenza giuridica, logica e sistematica invocata dalla Legge delega qui sembra del tutto smarrita.
Il codice civile, che pure necessitava di una revisione profonda nel Titolo II, resta identico a se stesso. E ciò malgrado che la stessa legge delega (legge n. 106 del 2016) contenesse la previsione di una revisione complessiva del Titolo II del libro I del codice civile.
Il codice del Terzo Settore ha invece disciplinato solo gli Enti del Terzo Settore lasciando gli altri organismi privati sotto il vecchio cappello civilistico del codice civile, che risulta novellato solo in tema di trasformazione, fusione e scissione di associazioni (riconosciute e non) e fondazioni.
Il riconoscimento della personalità giuridica trova una semplificazione solo per gli enti che si qualificheranno come ETS mentre permane il vecchio regime prefettizio e regionale per le altre organizzazioni. Le Fondazioni, il cui sviluppo storico e materiale non è neanche lontanamente assimilabile alle originarie disposizioni codicistiche, continua ad avere la vecchia veste giuridica, escludendo per esempio nel codice civile una normazione delle fondazioni di partecipazione.
Dal punto di vista tributario la situazione non è migliore. La sovrapposizione di norme che il legislatore ha introdotto è destinata ad aprire un conflitto interpretativo di notevole ampiezza. Basti pensare alle associazioni sportive dilettantistiche disciplinate dalla legge 289/2002 e destinatarie di normative fiscali particolari che volessero acquisire contestualmente anche la qualifica di associazione di promozione sociale e con questo dunque qualificarsi come Enti del Terzo Settore. A quali norme sarebbero soggette? E’ sufficiente la previsione contenuta nel primo comma dell’art. 3 secondo cui “Le disposizioni del presente Codice si applicano, ove non derogate ed in quanto compatibili, anche alle categorie di enti del Terzo settore che hanno una disciplina particolare” per dirimere i dubbi interpretativi che si apriranno?
E, sempre per restare in tema di attività sportiva dilettantistiche, il CONI sarà chiamato a istituire una sezione del Registro ad hoc per attuare il riconoscimento degli ETS che esercitano attività sportiva dilettantistica nonché delle imprese sociali?
Gli enti non commerciali che decideranno di acquisire la qualifica di impresa sociale perderanno lo status di ente non commerciale come l’intero decreto sembra alludere, o il concetto esposto nella relazione illustrativa al decreto secondo la quale essendo quella di impresa sociale una qualifica normativa che può essere assunta da diverse tipologie di enti, i relativi redditi sono determinati secondo le norme tributarie ordinariamente applicabili alle diverse tipologie originarie?
Il trattamento fiscale conseguente alla perdita della qualifica di ente non commerciale come si configurerebbe?
Questa rappresenta solo una piccola selezione di temi ai quali bisognerà trovare risposte e soluzioni nei prossimi mesi e sui quali Fiscosport ha avviato una disamina approfondita.
Ma soprattutto è interessante porre l’attenzione su alcune disposizioni fiscali che caratterizzano il punto di partenza della qualificazione di ente non commerciale. I propositi iniziali di innovare profondamente questo concetto sono stati puntualmente traditi e nei fatti si è addirittura irrigidita la distinzione tra attività commerciale e non commerciale. Quest’ultima infatti viene definita a partire dal presupposto che l’ente svolga una attività in condizione di perdita economica e cioè non suscettibile di produrre alcun apprezzabile avanzo di gestione. Siamo di fronte a un punto che già in passato aveva suscitato le perplessità degli interpreti e che oggi viene riproposto esponendo gli enti non commerciali a una condizione di notevole rischio nonché incertezza dal punto di vista tributario. Al punto da far sospettare che questa categoria così importante del Terzo Settore debba diventare, nelle intenzioni del legislatore, una categoria residuale.
La disciplina tributaria per gli Enti del Terzo settore rende infatti praticamente insostenibile lo svolgimento di qualsiasi attività economica.
Le associazioni di promozione sociale perdono la loro specificità e vengono assimilate alle organizzazioni di volontariato.
Emblematica a tale fine è la disciplina che limita in misura non comprensibile il numero dei lavoratori dipendenti o collaboratori al cinquanta per cento dei volontari o al cinque per cento degli associati (art. 36).
Il sistema dei controlli viene pesantemente inasprito. Oltre alla nomina degli organi di controllo e agli obblighi in termini di scritture contabili e di trasparenza viene prevista un’attività di controllo da parte del registro che si somma a quella esercitabile dall’Amministrazione finanziaria.
In caso di disconoscimento della natura dell’ente, anche a opera dell’amministrazione finanziaria in seguito alla violazione del divieto di distribuzione diretta o indiretta degli utili, i rappresentanti legali sono suscettibili di sanzioni pecuniarie da 5.000,00 euro a 20.000,00 euro che si sommerebbero, in caso di accertamento fiscale, alle sanzioni tributarie. Inoltre gli enti sarebbero soggetti all’obbligo di devoluzione del patrimonio secondo quanto previsto dall’art 9 e dall’art. 50.
I giudizi espressi, che cercheremo di articolare nel dettaglio nei prossimi numeri, ci conducono a una prima riflessione: la riforma sembra alludere a un restringimento importante dell’operatività degli enti non commerciali del Terzo Settore. E’ l’impresa sociale il vero perno di questa Riforma ed essa sarà il soggetto intorno al quale verrà sostanzialmente definito il nuovo confine del Terzo Settore.