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Home Approfondimenti IL “FINANCIAL FAIR PLAY” DELLA UEFA - A cura di Mario Vigna...
  • Approfondimenti

IL “FINANCIAL FAIR PLAY” DELLA UEFA – A cura di Mario Vigna *, Avvocato in Roma

Mario VIGNA
Avvocato
5 Luglio 2013
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    In questo numero di Fiscosport siamo molto lieti di pubblicare un contributo che si presenta - malgrado una prima superficiale occhiata non lo faccia intendere - di estremo interesse anche per le società e le associazioni sportive dilettantistiche. L'avvocato Mario Vigna - che oltre che esperto in diritto sportivo e componente del Progetto di Diritto Societario ed Industriale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma, dal 2009 riveste il ruolo di Procuratore Antidoping del CONI - ci parla infatti del calcio professionistico ai massimi livelli europei (UEFA), dunque di una materia che esula dal nostro tradizionale campo d'azione: tuttavia trattare e conoscere la normativa in materia di equilibrio finanziario dei club più importanti è sicuramente di interesse per tutte le società sportive; e ciò anzitutto perché l'"equilibrio" e le regole che lo governano sono i medesimi a prescindere dall'entità e dall'importanza economica e mediatica della società: ciò che vale per il Barcellona può e deve valere anche per il piccolo club calcistico di periferia; e in seconda battuta perché gli interventi assunti a livello di sport di vertice, quello professionistico, hanno inevitabili ripercussioni - economiche, di immagine, e anche morali - sul mondo del dilettantismo.
    1.    È necessario il Financial Fair Play (“FFP”) dell’UEFA?

    Nel corso degli ultimi anni molti club europei hanno dichiarato a bilancio perdite finanziarie ripetute, ingenti e in aumento. Tale dato finanziario è singolare se visto nell’ottica micro-economica del settore calcio in quanto esso rappresenta un segmento di industria non sottoposto alla recessione economica che invece da alcuni anni colpisce altre aree dell’economia europea. Infatti va considerato che negli ultimi 5 anni gli introiti delle società calcistiche sono saliti di circa il 9% all’anno. D’altra parte, non può tralasciarsi come siano esponenzialmente aumentati i costi per dipendenti e trasferimenti, valutati ad un netto annuo di circa il 14%.

    Pertanto, a fronte di un rapporto medio salari/introiti pari a circa il 65%, deve evidenziarsi comunque come molti dei club oggetto di analisi spendano in verità addirittura oltre il 100% dei propri introiti per pagare i salari. Tale trend è particolarmente evidente se si esaminano i dati dei campionati di prima divisione sotto l’egida dell’UEFA nel quadriennio 2006-2010 (es. Germania, Spagna, Inghilterra, Italia, Francia, Russia, Turchia). I dati rivelano che i club hanno avuto perdite nette in aumento di anno in anno nonostante vi fossero stati dei maggiori ricavi. Nel solo biennio 2008-2010 il cumulo delle perdite di esercizio è risultato pari a circa 1 miliardo di euro, con un aumento nel 2010 del 36% rispetto al 2009 ed addirittura del 153% rispetto al 2008. Ne è risultata una situazione complessiva nella quale il 56% dei club risulta in rosso. Paradossalmente tale percentuale sale se si considerano solamente i club che disputano le coppe europee (i.e. Champions League e Europa League). Infatti, nonostante tali club ricevano cospicui fondi derivanti dalla partecipazione a tali competizioni, il maggior aggravio di costi inerenti ai salari fa sì che i club in perdita in tale fascia salgano al 65%.

    Dalla situazione economica sopra descritta è derivato uno scenario nel quale i club morosi e ritardatari nei pagamenti dei propri debiti sono esponenzialmente aumentati negli ultimi anni. A livello prettamente sportivo e civilistico ne è conseguito un aumento del contenzioso relativo a mancati pagamenti di corrispettivi di trasferimento, salari, indennità di formazione e contributi di solidarietà. Da un punto di vista fiscale e tributario sono aumentati i casi di mancati pagamenti di tasse e contributi.

    Nel cercare di arginare questo trend di deficit e al fine di garantire stabilità ai rapporti negoziali afferenti al settore imprenditoriale del calcio, l’UEFA ha quindi deciso di predisporre una regolamentazione ad hoc, da affiancare a quella già esistente riguardante le “licenze UEFA”. In breve, la sana gestione finanziaria è divenuta per l’UEFA un parametro – analogo ad un piazzamento nella classifica del proprio campionato di appartenenza – da valutare al fine di consentire ad un club di partecipare o meno alle competizioni sotto l’egida dell’UEFA stessa. Si è quindi proceduto a creare un sistema di monitoraggio dell’operato finanziario dei club che, nello spirito dell’UEFA, dovrebbe proteggere l’integrità delle competizioni, incoraggiare i club a contare sui propri profitti senza ricorrere a finanziamenti terzi, promuovere investimenti a lungo termine in infrastrutture e nel settore giovanile, nonché garantire i pagamenti al personale e ad altri club con i quali si facciano delle transazioni. Tale sistema di norme ha preso il nome di Financial Fair Play (la normativa completa del FFP è disponibile al link: http://www.uefa.com/uefa/footballfirst/protectingthegame/financialfairplay/index.html) 

    2.    Le regole fondamentali del FFP

    Innanzitutto, va premesso che le regole del FFP stanno seguendo un’entrata in vigore graduale. Ad esempio, se da un lato il monitoraggio sul pagamento degli stipendi e delle spese di trasferimento è già in atto dal giugno 2011 (secondo la c.d. “enhanced overdue payable rule”), il vincolo del pareggio di bilancio (c.d. “break-even rule”) sarà operativo solo a partire dal 2013-2014, ossia quando l’obbiettivo perseguito in misura graduale sin dal novembre 2011 non sarà ulteriormente differibile.

    Con il pareggio di bilancio, il FFP sancisce il proprio caposaldo: far sì che un club non spenda ripetutamente più di quando esso ricavi. Ciò avverrà mediante una progressivo percorso mirato al raggiungimento del break-even. Attualmente le regole prevedono che, al fine di considerare la ripetitività,  le valutazioni siano effettuate su tre esercizi consecutivi dei club, con margini di deviazione che vanno ad esempio dai 45 milioni di euro per il triennio 2013-2015 a meno di 30 milioni di euro per il triennio 2016-2018. In merito, va considerato che i proprietari possono coprire parzialmente le perdite entro i 5 milioni di euro tramite finanziamenti soci, ma tale soglia deve considerarsi non come riferita al singolo esercizio, quanto piuttosto al complessivo periodo di monitoraggio su tre esercizi consecutivi.

    Al fine di compiere tali funzioni di monitoraggio e imporre, se necessario, misure sanzionatorie,  l’UEFA ha predisposto la creazione del Club Financial Control Body, un organo di controllo finanziario che dal 1 giugno 2012 è a tutti gli effetti un organo disciplinare della UEFA. Si occupa in sostanza di una serie di decisioni quali determinare se il sistema di licenze per club sia applicato in conformità alle regole, verificare se i requisiti previsti dal FFP siano rispettati, decidere in merito alle qualificazioni dei club alle competizioni UEFA e infliggere le misure disciplinari in caso di violazione delle regole.

    Proceduralmente, l’ente funziona mediante un sistema bicamerale costituito da un ufficio investigativo e un organismo giudicante. L’ufficio investigativo è responsabile per le indagini e gli accertamenti. Il procuratore (denominato “Chief Investigator”) può decidere di prendere misure cautelari e provvisorie a seconda delle esigenze del singolo caso, deferire la vicenda all’organo giudicante o archiviare il caso. Quando la questione arriva dinanzi all’organo giudicante, esso decide nel merito disponendo misure provvisorie nel corso del giudizio e arrivando a una pronuncia che può irrogare sanzioni disciplinari quali richiami, multe, detrazioni di punti, sospensione dei pagamenti dei premi derivanti dalle competizioni UEFA, il blocco del mercato, e addirittura l’esclusione di un club da una competizione europea in corso o futura. Le decisioni di tale organo UEFA sono appellabili al Tribunale Arbitrale dello Sport di Losanna.

    3.    Il peso economico del FFP

    Da un punto di vista politico-economico, il FFP dell’UEFA è mirato a contrastare il cosiddetto “triplo rischio”, ossia
    i) la minaccia all’integrità della competizione,
    ii) il rischio di collasso del sistema calcio affidato ai ricchi proprietari (c.d. “sugar daddy”) e
    iii) un problema morale ed etico dello sport.

    La tutela dell’integrità della competizione nasce dal fatto che troppo spesso molti club subiscono penalizzazioni di punti o addirittura estromissioni dai campionati per motivi finanziari. Ciò comporta evidenti conseguenze in quanto vicende quali retrocessioni o qualificazioni alle coppe risultano non più legate all’aspetto sportivo del fenomeno calcio quanto piuttosto a quello economico.  

    Per quanto attiene alle politiche da Mecenate effettuate da ricchi proprietari di squadre di calcio, si è ritenuto che affidare la tenuta del sistema ai mutevoli umori di tali benefattori non sia sano per un sistema che, in mancanza di tali emolumenti, potrebbe rischiare di non reggersi sulle proprie gambe. L’intento dell’UEFA è quindi quello di promuovere una gestione finanziaria dei club che non si basi sulle continue ricapitalizzazioni o sui periodici apporti economici dei soci, quanto piuttosto su una strutturazione dei flussi finanziari tale da creare delle politiche di spesa razionali e lungimiranti.

    Il proposito è quello di creare un bilancio di esercizio imperniato su asset che effettivamente siano idonei a misurare lo stato di salute del club, con voci attive e patrimonio netto capaci di fare da paracadute alle passività, evitando così le situazioni di negative equity.

    Se questo è lo scopo primario del FFP, deve notarsi però come in realtà le situazioni di negative equity non siano così frequenti nel calcio rispetto ad altri settori. Allora perché applicare una normativa così peculiare? Probabilmente la risposta sta in quello che forse sarà il maggior risultato economico del FFP: indirizzare le spese dei club da alcune voci quali salari e trasferimenti ad altre più “strutturali”. Infatti, va evidenziato come non tutte le spese dei club verranno monitorate dall’UEFA. In particolare non saranno soggette a monitoraggio quelle legate allo sviluppo e alla costruzione di nuovi stadi o quelle dedicate al settore giovanile, ivi comprese le infrastrutture. Ne consegue che le spese sotto la lette di ingrandimento sono quelle legate a trasferimenti e ingaggi di giocatori (e allenatori). È infatti in relazione a queste voci di spesa che varranno comparati gli introiti derivanti dalla vendita dei biglietti, dai diritti televisivi, dalle sponsorizzazioni, dalla vendita dei giocatori e dai premi sportivi.

    Al riguardo, i primi effetti del FFP sulle spese per trasferimenti e salari sono già storia recente. Basti considerare la compressione delle movimentazioni e del volume del mercato giocatori nel corso della finestra estiva 2012-2013. Inoltre, considerato che tutti i salari sanciti in contratti siglati prima del 2010 non erano stati imperniati sul rispetto del break-even, è piena attualità il tentativo di molti club di rinegoziare i termini economici di detti contratti, anche chiedendo “spalmature” degli ingaggi su più stagioni rispetto a quanto inizialmente concordato (es. caso Inter-Sneijder).

    4.    Critiche al FFP e il ruolo dell’UEFA

    Una delle principali critiche mosse all’UEFA è stata quella di aver creato un sistema di regole inerenti alla gestione finanziaria dei club calcistici come se essi fossero soggetti operanti in un mercato a parte.

    Al di là dei meritevoli scopi inerenti alla tutela della competizione sportiva, alla promozione del settore giovanile e alla salvaguardia dei diritti di credito degli operatori del settore, desta perplessità l’aver considerato l’industria “calcio” come un settore a se stante e asseritamente speciale rispetto ad altre aree produttive. È infatti innegabile che se da un lato il club calcistico è focalizzato sul piano sportivo dell’attività, dall’altro ha una innegabile connotazione commerciale. In tale ultima veste, il club calcistico opera innegabilmente nel libero mercato e si confronta con una vasta moltitudine di soggetti imprenditoriali e professionali (es. sponsor, fornitori, partner, consulenti) che nulla hanno a che vedere con le regole del FFP. In tale ottica, sottoporre i club calcistici a un monitoraggio sulle proprie strategie e politiche finanziarie potrebbe rappresentare una limitazione della concorrenza ed una deviazione “non autorizzata” dalla normativa comunitaria.

    Un’ulteriore analisi è stata svolta a proposito dell’effetto indiretto che il FFP avrebbe sui salari e sul mercato del lavoro sportivo. Di conseguenza, molti studiosi ritengono che le norme indurrebbero a contenere i salari degli sportivi e limitarne la circolazione, creando così una sorta di cartello in violazione dell’art. 101 del Trattato Europeo.

    Attualmente le suddette critiche sembrano avere poco peso specifico, specie considerato l’endorsement che le autorità europee hanno pubblicamente svolto a favore del FFP.

    Per altro verso, viene legittimamente da chiedersi se un “governing body” sportivo quale l’UEFA abbia o meno la potestà per disporre regole di compliance finanziaria. Se è infatti appropriato il ruolo dell’UEFA quale organo legislativo, esecutivo e giudiziario competente in relazione a tutto quanto riguardi le “regole del gioco” calcio, diverso è considerare l’UEFA competente a stabilire regole di natura prettamente finanziaria e di gestione/economia aziendale di società appartenenti a ordinamenti statuali diversi.

    Inoltre non pare che le attuali regole del FFP evitino bug nel sistema. Se infatti il break-even è sicuramente un obiettivo opportuno per un operatore consolidato nel mercato, lo stesso non può dirsi ad esempio per una start up che in quello stesso mercato vorrebbe farsi strada. Infatti, se un nuovo club vuole crescere in ambito sportivo è innegabile che all’inizio dovrà – come in altri settori imprenditoriali – compiere un significativo sforzo onde acquisire ad esempio un parco giocatori competitivo, infrastrutture, personale di livello. Tale investimento iniziale è ovviamente soggetto alle disponibilità e alle strategie della proprietà del club ed è spesso ciò che fa diventare “top” un club di medio livello. Applicando il FFP alla lettera c’è il rischio che la stabilità del sistema faccia rima con l’ulteriore consolidamento ai vertici sportivi dei soliti top club, con pregiudizio per chiunque voglia crescere ed entrare nel mercato con capitali nuovi.
    Tale aspetto apre una nuova questione. Se da una parte è infatti innegabile che mantenere lo status quo dei noti top club è poco confacente al concetto di equilibrio competitivo, dall’altra è innegabile che la maggior parte dei club trovatisi in situazioni di insolvenza nel corso degli ultimi decenni appartengano a serie minori. Ciò dimostrerebbe che il problema finanziario del calcio europeo non risiede tanto nei campionati di prima divisione, quanto piuttosto nei campionati dove militano quei club-start up che aspirano a diventare “top” e che fermano la loro corsa per mancanza di una programmazione di lungo raggio.

    In ogni caso, ulteriore rischio del FFP è che un approccio integralista al negative equity comporti distorsioni. Vi sono infatti situazioni in cui un club abbia passività a bilancio superiori al valore dei propri asset ma abbia al contempo una piena solvibilità derivante dal proprio cash-flow. È ad esempio il caso di quelle passività di lungo termine che non richiedono un pronto rientro nel breve periodo. Risulta quindi evidente che applicare sanzioni a società che abbiano negative equity temporanee potrebbe colpire anche società che in realtà sono finanziariamente solventi. Ad esempio, non può considerarsi insolvente una società che sebbene non raggiunga il pareggio di bilancio abbia riserve o previsioni di utili futuri o una società che magari abbia possibilità di ricevere fondi da fonti “extra-calcistiche”.

    Vanno quindi considerati con estrema cautela concetti quali ad esempio strutturazione del debito e ammortamenti prima di procedere a valutazioni decisive ai fini del FFP.  

    Da ultimo non può sottacersi il peso dei diversi regimi fiscali operanti in ambito europeo, in particolare quando vi siano significative discrepanze tra aliquote applicabili a situazioni finanziarie sostanzialmente analoghe.

    5.    Il rischio-aggiramento del FFP

    Come detto, la regola del break-even è probabilmente sovrastimata per considerare se una società sia o meno in salute e solvente.

    È pertanto del tutto evidente che se l’insolvenza dei club è il fenomeno da debellare, occorre prima verificare con certezza che tale insolvenza in concreto vi sia. Secondo i principi contabili generalmente adottati in Europa, lo studio dei rapporti economici e finanziari tra le varie voci di un bilancio aziendale può focalizzarsi principalmente su quattro rapporti:
    i) total liabilities/total assets (totale passività/patrimonio netto),
    ii) current liabilities/current assets (debiti a breve termine/attivo circolante),
    iii) sales/total assets (vendite/capitale investito, in sostanza il tasso di rotazione delle vendite) e
    iv) net income/total assets (utile netto/totale attivo).

    Ovviamente vi sono numerosi altri indici utili al fine di analizzare lo stato di salute di un’azienda, ma i predetti quattro rapporti possono considerarsi oltremodo indicativi onde rivelare stati di sofferenza. 

    È inoltre chiaro come l’andamento “sul campo” possa già di per sé rappresentare una spia da tenere sotto controllo. È infatti indubbio che scarsi risultati sportivi legati ad alti salari siano un dato preoccupante, così come lo è una scarsa appetibilità in termini di marketing dettata dalla bassa posizione in classifica. In particolare, va notato che questi dati – proprio perché legati alle prestazioni sportive – sono soggetti ad una significativa mutevolezza, anche da una stagione ad un'altra. Ciò dimostra che nel calcio raggiungere il break-even nella stagione A non può, esso solo, considerarsi un indice per escludere uno stato di sofferenza nella successiva stagione B. Infatti, troppi fattori (soprattutto sportivi) possono mutare in bene o in male da stagione a stagione e non è detto che il pareggio di bilancio sia la panacea di tutti i mali finanziari dei club.

    Per quanto attiene la limitazione dei proventi extra-calcistici, l’UEFA punta chiaramente a scoraggiare l’operato degli sugar daddy che hanno fatto le rapide fortune e le rapidissime sfortune di tanti club negli ultimi anni. Al di là dei buoni propositi, non è detto che ciò sia legalmente sostenibile solo in virtù dell’asserita specialità del sistema imprenditoriale calcio. Va peraltro considerato come i modi per aggirare l’ostacolo siano oltremodo numerosi. Basti pensare alla facilità con la quale si possa sostituire un finanziamento soci con una sponsorizzazione da parte di una società di proprietà del socio stesso.

    Su tale ultimo punto è emblematico il recente caso del Paris Saint Germain e della massiva sponsorizzazione (si parla di 150 milioni di euro all’anno per 4 anni) da parte della Qatar Tourism Authority. Infatti, l’ultimo accordo firmato dal club francese con l’ente del turismo qatariano prevede ingenti versamenti pluriennali con efficacia addirittura retroattiva, tali da incidere anche sugli esercizi 2011 e 2012 (quelli degli acquisti di Pastore, Lavezzi, T. Silva, Ibrahimovi?, Menez per citarne solo alcuni). Nondimeno, il contributo dell’ente turistico del Qatar sarebbe tecnicamente classificabile come aiuto di stato, una pratica che è notoriamente e fermamente proibita per tutti i paesi UE.  
    Grazie a questo accordo i parigini sembra possano rientrare nei parametri imposti dall’UEFA. A tal proposito, va evidenziato come il FFP non preveda, come ragionevole, alcun preventivo assenso dell’UEFA sulle sponsorizzazioni ottenute dai club. L’unica valutazione dell’UEFA – la quale, va evidenziato, investiga e si pronuncia solo dopo che il club coinvolto sottopone la documentazione – su tali accordi è infatti legata alla circostanza che essi siano o meno considerati “related party transactions” ossia negozi effettuati con soggetti affiliati, collegati o comunque riconducibili alla proprietà del club calcistico. Solo in tali casi l’UEFA ha il potere di considerare il valore della transazione e giudicare se esso corrisponda o meno ad un “fair value”. La ratio di tale norma è infatti mirata ad evitare che i proprietari di club aggirino il FFP mediante accordi di sponsorizzazione eccessivi.

    In caso non si riscontri il fair value, l’UEFA ha il potere di modificare le cifre ai fini dei calcoli necessari per valutare la congruità alle disposizioni del FFP. Non può peraltro negarsi come il concetto di fair value si presti per sua natura ad interpretazioni difformi ed è quindi presumibile che vi saranno posizioni diverse da caso a caso. Ad ogni modo, l’Annex X (E.7) del FFP traccia un criterio ove sancisce che “A related party transaction may, or may not, have taken place at fair value…An arrangement or a transaction is deemed to be ‘not transacted on an arm’s length basis’ if it has been entered into on terms more favourable to either party to the arrangement than would have been obtained if there had been no related party relationship.” In altre parole, è considerato fair value quello che l’azienda sponsor applicherebbe a qualsiasi altro club calcistico e non solo a quello con il quale ha relazioni e legami societari.  

    Per altro verso, non è certo facile vagliare nella pratica se un soggetto sia o meno una related party di un club calcistico. Al riguardo, è indicativo il caso del Manchester City e della compagnia aerea sponsor Etihad Airways. Il proprietario di tale azienda altri non è che Sheikh Khalifa, fratellastro dello sceicco Mansour, proprietario del club inglese. Andare a verificare se tale parentela comporti un’influenza o un controllo della compagnia aerea sulla gestione del Manchester City rappresenta il confine entro il quale l’UEFA può o meno entrare nel merito di valutazioni sul fair value della sponsorizzazione.
    Senza dubbio è  complicato, ma non è tutto.
    Infatti, spesso gli accordi di sponsorizzazione accorpano complessivamente molteplici diritti promo-pubblicitari quali ad esempio quelli di sponsor di maglia, il nome dello stadio e quelli legati alle infrastrutture e ai campus di allenamento. Quando il valore della sponsorizzazione è “a corpo” è evidente che l’UEFA dovrà suddividere il valore della sponsorizzazione per tutte le singole voci e svolgere le sue considerazioni sul fair value in relazione a ogni singolo diritto di sponsorizzazione concesso. Le valutazioni su tali aspetti possono ovviamente prestarsi a differenti interpretazioni e criteri di comparazione e ovviamente questo non aiuta il consolidamento del FFP, specie quando ci si trova a considerare un accordo come fuori dal concetto di fair value.
    In merito, basti ipotizzare il caso in cui un’azienda sponsor legata ad un club di Serie A, magari con aspirazioni di entrare in Champions League o Europa League, stipuli un accordo di sponsor di maglia per 25 milioni di Euro a stagione. A fronte di tale accordo, l’UEFA dovrebbe iniziare un’indagine volta a verificare gli importi delle sponsorizzazioni di maglia in Serie A e in Europa e decidere se l’importo della sponsorizzazione sia o meno in linea con i valori del momento (fermo restando che il valore di mercato è comunque un concetto diverso dal fair value). Solo se tale comparazione desse esito negativo, l’UEFA avrebbe il potere di modificare le cifre da considerare al fine di concedere o meno la licenza del FFP per quella data squadra.

    Come detto, sembrerebbe che l’ultima mossa del PSG possa rendere superflue le considerazioni circa il fair value e le related party transactions, essendo considerato l’accordo tra PSG ed ente qatariano più un aiuto di stato (di cui il FFP dell’UEFA non tratta) che una sponsorizzazione con una parte collegata. Il condizionale è d’obbligo perché districarsi tra gli intrecci del club parigino non è semplice. Esso è infatti posseduto al 100% dalla società Qatar Sports Initiative, a sua volta posseduta dal Qatar Investment Authority, un fondo sovrano controllato dal governo qatariano. Visto che la Qatar Tourist Authority è una organizzazione governativa, tutto sembrerebbe ricondurre al governo del Qatar, il quale collega sicuramente la proprietà del club parigino all’ente turistico finanziatore. Se tale collegamento fosse qualificato “related party transactions”, l’indagine dell’UEFA potrebbe prendere il via e probabilmente potrebbe esitare con un sostanziale ribasso delle cifre a discapito della congruità del PSG al FFP. In merito, va notato come a fine 2012 l’Atlético Madrid abbia sottoscritto un accordo con l’Azerbaijan circa la sponsorizzazione delle maglie sulla base di 20 milioni di euro all’anno. In comparazione, i 150 milioni di euro del PSG sembrerebbero oltremodo eccessivi, sebbene l’accordo pubblicitario sembri andare oltre la sola sponsorizzazione della maglia.  

    In ogni caso, proprio per evitare strumentalizzazioni e aggiramenti della normativa, alcuni addetti ai lavori pensano ad una correzione del FFP onde far sì che sponsorizzazioni fuori dal fair value e aiuti di stato da paesi extra-UE non siano possibili. In particolare c’è chi ipotizza per le sponsorizzazioni una sorta di “sponsorship cap” derivante dai valori medi delle sponsorizzazioni dei club europei, usati come metro di paragone per stabilire come tetto il massimo possibile aumentato di una percentuale.

    In realtà, tale soluzione sembrerebbe poco compatibile con la normativa europea. Se infatti è stata bocciata sinora l’idea del salary cap per gli atleti in virtù di una sua incompatibilità con le logiche di libero scambio del mercato del lavoro e della concorrenza, parrebbe singolare pensare di attuare tetti di sorta per i proventi derivanti da sponsorizzazioni sportive.

    6.    Rilievi conclusivi

    Il FFP UEFA ha sicuramente dei buoni propositi e mira ad arginare quelle falle che il professionismo sportivo europeo ha gravemente manifestato nel corso di questi ultimi anni. Infatti, a differenza del sistema americano dove le franchigie non sono sottoposte a retrocessioni e il sistema può dirsi chiuso e rinforzato da accordi collettivi di varia natura (es. salary caps, numero chiuso del parco giocatori, vendita collettiva dei diritti televisivi, ridistribuzione dei proventi derivanti da merchandising e biglietti), il professionismo sportivo europeo è figlio di un sistema aperto e non sottoposto a grandi limitazioni o contrattazioni collettive, proprio per favorire quella concorrenza che dovrebbe garantire libero accesso al sistema.

    Tale approccio diverso tra USA e UE ha comportato negli anni conseguenze finanziarie inverse. Infatti, mentre i campionati professionistici statunitensi hanno avuto un generale trend di profitto e si è ottenuta miglior competitività generale, in Europa si sono avute ingenti perdite sia finanziarie che sul piano dell’equilibrio competitivo. A tal riguardo, il FFP mira quindi a delineare una strada che però non sembra priva di ostacoli.

    In particolare, oltre alle obiezioni di matrice antitrust, il principale problema sembrerebbe risiedere nelle diversità fiscali e giuridiche in cui i club europei si trovano ad operare. Infatti, senza normative nazionali armonizzate o regolamentazioni europee in settori quali stadi, contraffazione e tassazione del “pianeta calcio”, sarà difficile poter applicare in modo unitario una normativa “finanziaria” che, allo stato, dovrà necessariamente confrontarsi con diverse legislazioni e diverse situazioni economiche. Non è detto che il calcio, in virtù della sua spesso autoproclamata specialità, possa rappresentare quel settore dove l’Europa inizi a implementare una normativa fiscale, ma la attuale situazione resta oltremodo difforme tra paese e paese. Di conseguenza, la stragrande maggioranza dei club italiani dovrà confrontarsi indiscutibilmente con tali diversità di sistema e prendere atto che non avere ad esempio stadi di proprietà costituisce un fattore che rischia di perdere competitività in quanto riduce indiscutibilmente le fonti di ricavo. Sul punto, l’ennesima fumata nera sulla “legge stadi” rappresenta sicuramente un vulnus per i club italiani rispetto a quelli ad esempio inglesi o spagnoli.

    In conclusione, si ritiene che la panoramica sul FFP abbia ancora da mostrare i suoi effettivi orizzonti. Infatti, sarà solo con l’entrata a pieno regime della normativa l’UEFA e con i primi significativi confronti tra le norme e dati reali delle gestioni aziendali che potranno tracciarsi i primi bilanci. La stessa casistica ci dirà se il test del FFP è aggirabile o superabile mediante escamotage contabili o tramite alcune “eccezioni” alle regole.

    Ad oggi una cosa è certa: tutti i club, sia quelli coinvolti che quelli che vorranno evitare coinvolgimenti, dovranno avvalersi di consulenti esperti della materia contabile e del marketing sportivo, anche considerando che i dati forniti dai club all’UEFA dovranno essere stati previamente sottoposti ad un audit. In caso di contestazioni, sarà molto importante analizzare le situazioni finanziarie delle società evidenziando come le voci di bilancio e alcuni indici non possano costituire un dogma, specie quando la società è dotata di un cash-flow ampiamente idoneo a consentirle la solvibilità delle spese correnti. Parimenti, andrà ben considerata la limitazione dei proventi extra-calcistici. Senza l’ingresso di soci di capitale che entrino nei club con equity extra-calcistico è infatti difficile che tali club possano aspirare a diventare dei top team. La conseguenza rischia di essere un consolidamento degli attuali club di vertice e una deflazione significativa dei trasferimenti dei giocatori, con possibili distorsioni della normativa sulla concorrenza.

    In attesa di nuovi sviluppi, merita una breve chiosa una delle prime vittime illustri del FFP, guarda caso un’altra società che, come il PSG, ha vissuto negli scorsi anni una crescita esponenziale grazie ai contributi del proprio ricco proprietario qatariano. Infatti, salvo che riesca a mettere a posto i bilanci entro il 31 marzo 2013, l’UEFA ha escluso il club spagnolo del Malaga dalle coppe europee per le prossime 4 stagioni. Ciò è avvenuto nonostante il Malaga sia ancora in gara nella Champions League in corso. Il paradosso sportivo è che l’eventuale vittoria della Champions di quest’anno non le consentirebbe di difendere il titolo l’anno prossimo, ovviamente fatta salva la possibilità che il Qatar decida entro marzo di promuovere le proprie attrazioni turistiche anche tramite il club andaluso. A tal ultimo proposito, è curioso notare che la effettiva capacità turistico-ricettiva del Qatar faccia sì che anche ipotizzando un continuo “tutto esaurito” delle strutture turistiche, per ammortizzare i costi dell’accordo promozionale sottoscritto con il PSG ci vorrebbero probabilmente alcuni decenni.

    * Mario Vigna, Avvocato associato dello Studio Legale e Tributario Coccia – De Angelis – Pardo & Associati in Roma

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      Editore: Maggioli Spa - Direttore Responsabile: Paolo Maggioli
      ISSN sito web: 2974-9948
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