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Home Approfondimenti La 1^ parte della relazione dell'Avv. Katia Scarpa al convegno di Treviso...
  • Approfondimenti

La 1^ parte della relazione dell’Avv. Katia Scarpa al convegno di Treviso del 6 maggio 2006.

Katia SCARPA
consulente
9 Maggio 2006
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    1^ parte – Gli aspetti civilistici delle associazioni sportive dilettantistiche   Sommario : 1) Associazioni (riconosciute e non riconosciute) e società: caratteri distintivi. 2) La costituzione di un’Associazione - Atto costitutivo e adempimenti relativi. 3) Lo statuto di un’Associazione sportiva dilettantistica – Particolarità. L’art.90 della legge 27 dicembre 2002 n. 289 (modificato dalla legge n.128/2004) al comma 17 ha espressamente previsto che “.. le associazioni sportive dilettantistiche ...possono assumere una delle seguenti forme: (1)          associazione sportiva priva di personalità giuridica disciplinata dagli artt.36 e ss. del codice civile; (2)          associazione sportiva con personalità giuridica di diritto privato ai sensi del regolamento di cui al DPR 10.02.2000 n.361; (3)          società sportiva di capitali o cooperativa costituita secondo le disposizioni vigenti, ad eccezione di quelle che prevedono le finalità di lucro...” La differenza principale tra associazione riconosciuta e non riconosciuta discende ...

     

    1^ parte – Gli aspetti civilistici delle associazioni sportive dilettantistiche

     

    Sommario: 1) Associazioni (riconosciute e non riconosciute) e società: caratteri distintivi. 2) La costituzione di un’Associazione – Atto costitutivo e adempimenti relativi. 3) Lo statuto di un’Associazione sportiva dilettantistica – Particolarità.

    1)     Associazioni (riconosciute e non riconosciute) e società: caratteri distintivi.

    L’art.90 della legge 27 dicembre 2002 n. 289 (modificato dalla legge n.128/2004) al comma 17 ha espressamente previsto che “..le associazioni sportive dilettantistiche …possono assumere una delle seguenti forme:

    (1)         associazione sportiva priva di personalità giuridica disciplinata dagli artt.36 e ss. del codice civile;

    (2)         associazione sportiva con personalità giuridica di diritto privato ai sensi del regolamento di cui al DPR 10.02.2000 n.361;

    (3)         società sportiva di capitali o cooperativa costituita secondo le disposizioni vigenti, ad eccezione di quelle che prevedono le finalità di lucro…”

    La differenza principale tra associazione riconosciuta e non riconosciuta discende essenzialmente dal “riconoscimento” e perciò dalla personalità giuridica. Con il riconoscimento l’associazione diventa punto di riferimento non solo dell’attività dei suoi organi, ma anche degli effetti di quella attività. Ed il fenomeno trova la sua spiegazione formale nell’esistenza di un vero e proprio soggetto dotato dall’ordinamento di capacità giuridica generale. L’associazione non riconosciuta, invece, non ha personalità giuridica propria. Anche la sua soggettività giuridica è stata a lungo posta in dubbio.

    Conseguentemente, diversa è la disciplina giuridica dell’associazione riconosciuta rispetto a quella dell’associazione non riconosciuta e tale diversità trova il suo nucleo centrale nel differente regime di responsabilità. Le associazioni non riconosciute si caratterizzano per il regime di responsabilità, che origina dal disposto di cui all’art.38, a tenore del quale “delle obbligazioni rispondono anche personalmente e solidalmente le persone che hanno agito in nome e per conto dell’associazione.” Nelle associazioni riconosciute, invece, (art.18, 1° comma) “gli amministratori sono responsabili verso l’ente” e non verso i terzi “secondo le norme del mandato.”

    Per la ricerca dei caratteri distintivi tra associazione e società sportive dilettantistiche occorre necessariamente partire dall’esame delle norme del codice civile. Gli artt.14-42 c.c. disciplinano le associazioni (distinguendo quelle riconosciute da quelle non riconosciute), ma non forniscono una definizione del concetto di associazione. L’art.2247 c.c., invece, individua la nozione di società, in quel contratto con cui “due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica, allo scopo di dividerne gli utili”.

    In assenza di della definizione codicistica di associazione, la dottrina ha ritenuto che – nell’ambito di un fenomeno associativo allo stato diffuso, che ricomprende sia la società che l’associazione – sussistano due fenomeni associativi tipici: quello delle associazioni del libro I e quello delle società. Pertanto, la società più che una species del genus associazione di cui al libro I, viene considerata un fenomeno tipologico da questa distinto o addirittura a questo contrapposto[1]. In altri termini, la società sarebbe un’associazione che si caratterizza per il fatto di essere creata per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili, mentre (ragionando a contrario) l’associazione (riconosciuta e non riconosciuta) di cui al libro I del codice civile, non svolge attività economica allo scopo di dividerne gli utili, ma è creata per l’esercizio di un’attività non lucrativa, per uno scopo cioè, che può essere anche ideale.

    In entrambi gli enti, elementi fondamentali sono:

    1.      anzitutto, un elemento personale[2];

    2.      in secondo luogo un elemento patrimoniale, poiché l’attività dei suoi partecipanti si trasforma necessariamente in rapporti economici.

    Ciò che differenzia i due enti, invece, è l’elemento spirituale, ossia lo scopo che in entrambi deve essere determinabile e lecito[3] ma nelle società deve essere lucrativo ovvero mutualistico, mentre nelle associazioni deve essere non economico, ancorché possa essere conseguito attraverso l’esercizio di un’attività economica[4].

    Al riguardo la Cassazione[5] ha precisato che la finalità di ottenere guadagni attraverso l’esercizio di un’attività economica costituisce la causa del contratto di società ex art.2247 c.c., e che si tratta di una causa complessa, composta di due elementi: (i) il conseguimento di utili e (ii) la ripartizione di utili tra i soci. Consegue che per esservi “impresa” è sufficiente il cd. lucro oggettivo e cioè che l’attività sia organizzata in modo da produrre utili, mentre per aversi “società” dev’esserci la presenza del lucro cd. soggettivo, cioè la divisione degli utili tra i soci. In caso di assenza del lucro soggettivo, poi, secondo la Suprema Corte, sarebbe sempre possibile la conversione del contratto di società in quello di associazione non riconosciuta.

    Possiamo perciò definire:

    1.      la società come quell’ente costituito da due o più persone che hanno conferito beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica, allo scopo di dividerne gli utili.

    2.      l’associazione come quell’organizzazione stabile di persone che, con un atto di autonomia negoziale, si sono impegnate a perseguire un interesse comune[6] non economico (e perciò, culturale, ideale e/o sportivo).

    Ai fini fiscali tale distinzione, però, non è esauriente.

    Il legislatore tributario distingue i soggetti passivi di imposta più che sulla base del diverso fine istituzionale, sulla base della natura (commerciale/non commerciale) dell’attività svolta.

    L’art.73 del TUIR, infatti, individua i soggetti tenuti a corrispondere l‘imposta sul reddito delle società differenziando:

    a) le società per azioni e in accomandita per azioni, le società a responsabilità limitata, le società cooperative e le società di mutua assicurazione residenti nel territorio dello Stato;

    b) gli enti pubblici e privati diversi dalle società (tra i quali sono compresi anche, oltre alle persone giuridiche, le associazioni non riconosciute), residenti nel territorio dello Stato, che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali;

    c) gli enti pubblici e privati diversi dalle società (tra i quali sono compresi anche, oltre alle persone giuridiche, le associazioni non riconosciute), residenti nel territorio dello Stato, che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali;

    d) (omissis..).

    Il successivo art.148 TUIR, con riferimento agli enti associativi, precisa che “Non è considerata commerciale l’attività svolta nei confronti degli associati o partecipanti, in conformità alle finalità istituzionali, dalle associazioni, dai consorzi e dagli altri enti non commerciali di tipo associativo. Le somme versate dagli associati o partecipanti a titolo di quote o contributi associativi non concorrono a formare il reddito complessivo. …”. I commi successivi individuano una serie di attività che sono ex lege considerate “effettuate nell’esercizio di attività commerciali, salvo il disposto del secondo periodo del comma 1 dell’articolo 143” e la previsione del particolare regime impositivo di favore per le associazioni sportive dilettantistiche.

    L’art.90 comma 17 della L. 289/2002, nel riconoscere che l’esercizio dell’attività sportiva dilettantistica possa essere posto in essere anche da enti che assumono la veste di società di capitali e che possono perciò godere del medesimo regime fiscale dettato per gli enti associativi, non ha curato il coordinamento tra i due istituti. La circostanza ingenera il dubbio che non sia sufficiente differenziare le società e le associazioni sportive dilettantistiche sulla base del solo elemento ideale (lo scopo lucrativo/non lucrativo).

    In particolare, l’art. 90 citato, prevede che lo statuto delle società sportive dilettantistiche debba contenere l’assenza di fine di lucro e la previsione che i proventi delle attività non possono in nessun caso essere divisi tra gli associati, anche in forme indirette.

    Il modello della società sportiva dilettantistica delineato dal legislatore fiscale, lascia intravedere, dietro la veste di società di capitali, un ente che non persegue né finalità lucrative oggettive (e cioè il conseguimento di utili), né finalità di lucro soggettivo (e cioè la divisione degli utili) e, perciò, sembrerebbe snaturata la stessa fattispecie tipica della società di capitali.

    Si pone, perciò, il problema se con tale disposizione il legislatore non abbia voluto incidere sulla disciplina generale delle società andando ad escludere che lo scopo di lucro costituisca elemento essenziale dell’ente societario, e ci si interroga sul rapporto tra non lucratività dello scopo e struttura societaria ed in particolare sul rapporto esistente tra non lucratività degli scopi e commercialità dell’attività.

    Quanto al rapporto tra non lucratività dello scopo e struttura societaria vale considerare, anzitutto, che, a fronte della rigorosa previsione dell’art. 2247 c.c. (caratterizzante la causa stessa del contratto di società), per cui i tipi societari del titolo V sono ispirati al principio generale della divisione degli utili, nella legislazione speciale si rinvengono diversi casi in cui è consentito il ricorso a tipi capitalistici per scopi economici, ma non lucrativi[7].

    Si tratta di fattispecie nelle quali il legislatore ha privilegiato un elemento di specialità, attinente ai soci (per esempio nel caso delle società a prevalente partecipazione pubblica) o all’oggetto sociale (per esempio nel caso delle società sportive), che giustifica un particolare regime normativo derogatorio alle norme di diritto comune.

    L’orientamento prevalente della dottrina[8], ritiene che i caratteri di specialità e di eccezionalità di queste fattispecie inducano ad escludere che si sia verificato un generale “superamento del quadro sistematico che si è delineato sulla base del codice civile“[9] e che proprio le frequenti scelte legislative (volte alla progressiva specializzazione dei tipi societari, mediante il raggiungimento di scopi ulteriori o differenti rispetto al fine che ne costituisce la causa tipica), confermano la “neutralità”[10] delle strutture organizzative dei contratti associativi. Si considerano, infatti, eccezionali le leggi speciali non coordinabili con il diritto comune, quando non abroghino specificamente un principio dello stesso con norma avente efficacia generale e si ritiene che per questo motivo il loro ambito di applicazione debba essere rigorosamente limitato.

    Solo parte degli interpreti[11] è giunta a considerare le numerose deroghe all’art. 2247 c.c. come il segno del tramonto dello scopo lucrativo delle società di capitali, poiché la società di capitali sarebbe diventata una mera forma che può essere utilizzata per scopi diversi.

    Il problema, per la verità, non è nuovo al mondo dello sport.

    Ed, infatti, già con l’art.22/2° comma dello Statuto tipo della FIGC[12] era stato fissato il divieto di ripartire gli utili tra i soci e la Cassazione, con il celebre caso Meroni[13], affermò che non sussistevano dubbi sulla natura di impresa dell’attività delle società professionali di calcio costituite in forma di s.p.a., anche se regolate da tale Statuto.

    La dottrina era divisa tra quanti[14] affermavano che l’esercizio in comune di un’attività economica debba essere necessariamente completato dal tipo di risultato (utile o guadagno mutualistico) che le parti si propongono di ottenere e dalla sua destinazione (egoistica o altruistica) e quanti[15], cercando una conciliazione tra causa delle società sportive e causa tipica della società, hanno escluso che la causa del contratto di società fosse lo scopo di lucro e ha ritenuto che elemento essenziale sia la gestione collettiva dell’impresa, poiché l’esistenza dell’impresa è il fulcro che integra la causa del contratto sociale.

    Tra quanti ha rinvenuto la causa del contratto sociale nello scopo di lucro, vi è chi[16] – cercando una conciliazione tra causa delle società sportive e causa tipica della fattispecie di cui all’art.2247 c.c. – ne ha allargato la nozione, fino a comprendere nell’utile societario una serie di vantaggi paraeconomici oltre alla distribuzione di denaro; e chi[17] ha posto l’accento sul fatto che non sussisterebbe alcuna differenza tra la distribuzione degli utili ai soci e la devoluzione degli stessi ad un altro scopo proprio dei soci e che l’art. 2247 c.c. si limiterebbe a garantire l’appartenenza dei dividendi ai soci, che, proprio in virtù di tale fatto, sono liberi di statuirne il reinvestimento per scopi comuni[18].

    Vi è stato, poi, chi ha escluso di dover ricondurre le società sportive nella fattispecie di cui all’art. 2247 c.c. e ha ritenuto[19] che le società calcistiche avrebbero dovuto essere qualificate come associazioni atipiche, perché come le associazioni esse perseguono fini (non economici) e l’attività economica di organizzazione degli spettacoli è solo strumentale al perseguimento del fine primario non economico[20]. Poiché, però esse, nella struttura, non rispettano i caratteri tipologico-organizzativi dell’associazione (ed infatti, l’adozione della forma società per azioni comporta l’assunzione di una struttura personale chiusa) si tratterebbe di associazioni atipiche.

    A tale linea interpretativa si è accostato, poi, il pensiero di chi[21] ha ritenuto che, costituendo il lucro soggettivo la causa del contratto di società, le società per azioni sportive sarebbero società nulle ex art. 2332 c.c. per mancanza dei requisiti causali tipici dell’atto costitutivo[22]. Dalle regole dello Statuto tipo delle società calcistiche, approvato con delibera F.I.G.C. 16 settembre 1966, risulterebbe, infatti, inequivocabilmente l’esclusione dello scopo di lucro in senso soggettivo e la natura non economica dei fini perseguiti (art. 3, primo comma, Statuto tipo[23]) e, dunque, la mancanza della causa del contratto sociale (art. 1418 c.c.[24]). Sarebbe, comunque, fatta salva la possibilità di conversione del contratto nullo in un contratto di altro tipo[25], quale quello di associazione.

    All’indomani della legge 23.03.1981 n.91, che aveva riconosciuto la rilevanza economica delle società sportive professionistiche, imponendo alle stesse la forma della S.p.a. o della S.r.l. (art.10/1°c) e facendo divieto di distribuire gli utili conseguiti, vi è stato anche chi[26] ha ritenuto che tale legge avrebbe disegnato una società di diritto speciale, caratterizzata da un oggetto particolare (stipulazione di un contratto con professionisti), una data struttura (s.p.a. o s.r.l.) ed uno scopo non utilitaristico.

    Ora, con le previsioni contenute nel citato art.90 comma 17 della L. 289/2002, il problema del rapporto esistente tra non lucratività dello scopo e struttura societaria torna a porsi e, perciò, si solleva nuovamente anche la questione del rapporto esistente tra norme di diritto comune e disposizioni contenute nella legge speciale.

    Le difficoltà interpretative non paiono essere state risolte dalla Circolare Ministeriale 22.04.2003 n.21/E[27], che avrebbe dovuto fornire le corrette coordinate applicative del citato art.90 della Legge 289/2002. L’amministrazione finanziaria, infatti, si è limitata ad enunciare che “L’ art. 90, comma 1, della legge n. 289 del 2002 ha introdotto, come già anticipato, un’importante novità consistente nell’estensione delle disposizioni della legge 16 dicembre 1991, n. 398, e successive modificazioni, e delle altre disposizioni tributarie riguardanti le associazioni sportive dilettantistiche  <alle società sportive dilettantistiche costituite in società di capitali senza fine di lucro> e che “Le società sportive dilettantistiche di capitali senza fine di lucro costituiscono una nuova categoria soggettiva, individuata ai sensi dell’art. 90 della legge n. 289 del 2002, destinataria del particolare regime di favore previsto per le associazioni sportive dilettantistiche. Dette società sono costituite ai sensi del comma 17, lett. c ), dell’art. 90 <secondo le disposizioni vigenti, ad eccezione di quelle che prevedono le finalità di lucro.> Anche le società in argomento devono indicare nella denominazione e ragione sociale la finalità sportiva dilettantistica e devono redigere lo statuto e l’atto costitutivo nel rispetto delle disposizioni stabilite dal comma 18. A tal fine valgono le modalità e i termini previsti dal regolamento da emanarsi ai sensi dello stesso comma 18 dell’art. 90”. Infine, ha precisato che “in mancanza del formale recepimento nello statuto o nell’atto costitutivo, nonché in caso di inosservanza di fatto delle clausole stabilite dai regolamenti emanati ai sensi del comma 18 dell’art. 90, le associazioni e società sportive dilettantistiche non possono beneficiare del particolare regime agevolativo ad esse riservato. Parimenti costituisce condizione per il godimento dei benefici fiscali l’adozione della denominazione indicata nel citato comma 17 dell’art. 90, che deve essere utilizzata in tutti i segni distintivi o comunicazioni rivolte al pubblico”.

    Ciò che appare chiaro dalla interpretazione ministeriale, è che, anche a seguito delle successive modificazioni legislative, la fattispecie tipo della società sportiva dilettantistica non è caratterizzata solo dall’oggetto sociale e dalla mancanza dello scopo di lucro, ma anche da una serie di elementi formali (riconoscimento del Coni, affiliazione alla Federazione, iscrizione nell’apposito registro istituito presso il Coni, ecc.) che ne evidenzi “l’appartenenza” ad un determinato settore[28].

    Più precisamente, il contenuto minimo obbligatorio richiesto dall’art.90 della Legge 289/2002 e poi dalla Legge 128/2004 è il seguente:

    a)     la denominazione (con riferimento all’attività sportiva dilettantistica), che deve essere utilizzata in tutti i segni distintivi o/e comunicazioni rivolte al pubblico;

    b)     l’oggetto sociale con riferimento all’organizzazione di attività sportive dilettantistiche, compresa l’attività didattica;

    c)      l’attribuzione della rappresentanza legale;

    d)     l’assenza di fini di lucro e la previsione che i proventi delle attività non possono, in nessun caso, essere divisi fra gli associati, anche in forme indirette;

    e)     le norme sull’ordinamento interno ispirato a principi di democraticità e di uguaglianza dei diritti di tutti gli associati, con la previsione dell’elettività delle cariche sociali, fatte salve le società sportive dilettantistiche che assumono la forma di società di capitali o cooperative per le quali si applicano le disposizioni del codice civile;

    f)       l’obbligo di redazione di rendiconti economico-finanziari, nonché le modalità di approvazione degli stessi da parte degli organi statutari;

    g)     le modalità di scioglimento;

    h)     l’obbligo di devoluzione ai fini sportivi del patrimonio in caso di scioglimento delle società.

    A ciò si aggiunga che secondo quanto disposto dalla citata Circolare Ministeriale n. 21/E/2003 oltre al contenuto minimo previsto dall’art. 90 della Legge 289/2002 occorre altresì includere negli statuti delle società sportive dilettantistiche anche quanto riportato al comma 4-quinquies dell’art. 111 del previgente T.U.I.R. (DPR 917/86) oggi comma 8 dell’art. 148 dell’attuale T.U.I.R. per le associazioni sportive dilettantistiche ed in particolare:

    a)    divieto di distribuire anche in modo indiretto, utili o avanzi di gestione nonché fondi, riserve o capitale durante la vita dell’associazione, salvo che la destinazione o la distribuzione non siano imposte dalla legge;

    b)    obbligo di devolvere il patrimonio dell’ente, in caso di suo scioglimento per qualunque causa, ad altra associazione con finalità analoghe o ai fini di pubblica utilità, sentito l’organismo di controllo di cui all’articolo 3, comma 190, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e salvo diversa destinazione imposta dalla legge;

    c)     disciplina uniforme del rapporto associativo e delle modalità associative volte a garantire l’effettività del rapporto medesimo, escludendo espressamente la temporaneità della partecipazione alla vita associativa e prevedendo per gli associati o partecipanti maggiori d’età il diritto di voto per l’approvazione e le modificazioni dello statuto e dei regolamenti e per la nomina degli organi direttivi dell’associazione;

    d)    obbligo di redigere e di approvare annualmente un rendiconto economico e finanziario secondo le disposizioni statutarie;

    e)    eleggibilità libera degli organi amministrativi, principio del voto singolo di cui all’articolo 2532, comma 2, del codice civile, sovranità dell’assemblea dei soci, associati o partecipanti e i criteri di loro ammissione ed esclusione, criteri e idonee forme di pubblicità delle convocazioni assembleari, delle relative deliberazioni, dei bilanci o rendiconti; è ammesso il voto per corrispondenza per le associazioni il cui atto costitutivo, anteriore al 1° gennaio 1997, preveda tale modalità di voto ai sensi dell’articolo 2532, ultimo comma, del codice civile e sempreché le stesse abbiano rilevanza a livello nazionale e siano prive di organizzazione a livello locale;

    f)      intrasmissibilità della quota o contributo associativo ad eccezione dei trasferimenti a causa di morte e non rivalutabilità della stessa.

    Seppur tali norme rivestano rilevanza fiscale, il loro impatto sulla struttura delle nuove società sportive di capitali non potrà non avere effetti anche sulle norme di diritto comune. Molteplici, infatti, sono le questioni che si profilano, in conseguenza delle difficoltà di coordinamento tra queste norme e quelle riportate nel libro V del codice civile riguardanti il diritto societario.

    Le problematiche più rilevanti derivanti da tale coordinamento attengono:

    a)     alla natura di tale tipologia societaria

    b)     alla disciplina della distribuzione di utili e delle operazioni di aumento e riduzione del capitale sociale, nonché degli eventuali casi di recesso o esclusione del socio;

    c)     alla disciplina della cessione delle quote;

    d)     alla disciplina del diritto di voto per gli associati o partecipanti per l’approvazione e le modificazioni dello statuto e dei regolamenti e per la nomina degli organi direttivi.

    Limitando l’esame alla questione della natura di tale tipologia societaria ed avendo riguardo anche alle posizioni interpretative che nel passato si sono occupate delle società sportive professionali, sembra doversi concordare con quella tesi[29] che ne individua la natura in quella di una associazione atipica.

    Sembra cioè doversi negare rilievo a quella linea di pensiero che riconosce a tali società sportive dilettantistiche una significativa “specificità”, derogatoria di alcune regole di diritto comune sulle società di capitali, ma comunque compatibile con la struttura organizzativa tipica dei so

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